Lo stop alla prescrizione in vigore dal primo gennaio per effetto della legge anticorruzione dove fu inserito un emendamento ad hoc, implica qualche urgente riflessione: non sono infatti pochi né irrilevanti i possibili vulnus allo Stato di diritto conseguenti all’applicazione della riforma. Innanzitutto, occorre rilevare che sull’annunciata riforma insiste un’ombra di non poco rilievo: sussistono infatti nella proposta profili di incostituzionalità, mentre la sua concreta applicazione potrebbe dar vita a pesanti contraccolpi tali da poter compromettere le diverse funzioni della pena che sono sottese alla ragione estintiva del decorso del tempo. A essere messa in discussione è in primis la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Fermare la prescrizione equivale infatti a considerare l’imputato, anche in caso di assoluzione, sottoposto a un procedimento privo di termini temporali. Il diritto di difesa ex art 24 Cost. risulterebbe inoltre compresso e deteriorato da distanze temporali lunghissime che renderebbero di fatto impossibile una ricostruzione esatta del fatto contestato. Parimenti, la funzione rieducativa ex art 27 Cost. Terzo comma, potrebbe risultare vanificata dal lasso di tempo intercorso in relazione al compimento del fatto. Ed appare sin troppo evidente, quanto allarmante, l’effetto distorsivo principale prodotto da una riforma che scalfisce un altro principio costituzionale. Lo stop alla prescrizione determinerebbe di fatto un procedimento sine die, che comporterebbe così l’irragionevole durata del processo in violazione di quanto previsto espressamente dall’articolo 111 della Costituzione. Tra l’altro la riforma Bonafede prevede che il tempo della prescrizione si blocchi a partire dalla sentenza di primo grado senza distinguere tra condanna o assoluzione, per cui in entrambi i casi l’appello proposto da chi è stato condannato oppure dal pm in caso di assoluzione dell’imputato, potrà svolgersi senza limiti di tempo anche per molti anni dopo.

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Come detto da tempo, per scongiurare tali effetti abnormi, sarebbe necessaria, ovviamente, una preliminare riforma ordinamentale. In questo senso è da accogliere con favore l’opportunità di estendere il patteggiamento, in combinato con altre innovazioni qui di seguito suggerite. In primo luogo, è necessario il potenziamento dei riti alternativi, l’ampliamento del giudizio abbreviato condizionato (quello che avviene con acquisizione della prova nuova rispetto a quella raccolta in fase di indagine), il rafforzamento della udienza preliminare e il consolidamento dei poteri decisori del giudice. Tutte misure che avrebbero effetti deflattivi sui processi e che comporterebbero una riduzione dei tempi degli stessi, a condizione che si decida di investire seriamente sul sistema giustizia. Si pone infatti davanti a noi il grande tema delle risorse: occorrono investimenti nel settore Giustizia per fare fronte ai sottodimensionamenti dei magistrati e degli amministrativi, ma anche fondi per provvedere alla manutenzione degli uffici giudiziari che oggi è centralizzata. Va notato peraltro che nell’amministrazione prossima della giustizia avranno un nuovo ruolo, sempre più centrale, i diversi processi telematici che pure meritano investimenti e formazione adeguata, se si vuole che funzionino al meglio a tutto vantaggio dei cittadini. La Corte costituzionale con una importante sentenza (la numero 115 del 2018) ha chiaramente rappresentato che la prescrizione debba essere considerata un istituto di natura sostanziale: essa deve dunque rispettare il principio di legalità e determinatezza e come tale è necessariamente immanente nel sistema. In buona sostanza, la prescrizione è insomma il sintomo di una malattia, non la causa. Se è vero che in Italia i tempi dei processi sono abnormi, bisogna intervenire sulla loro durata senza eliminare un istituto antico di civiltà giuridica.

Francesco Urraro

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