Piero Fassino è tra i meno allineati alla retorica anti-israeliana che, non da oggi ma sempre più gravemente negli ultimi mesi, contamina il dibattito pubblico sulla guerra di Gaza. Anzi, in più occasioni Fassino quella retorica ha contrastato, guadagnandoci in dignità e perdendoci in popolarità. Ma, proprio perché a Fassino va dato atto di non essersi mai immesso nell’andazzo generale, sorprende che in un’intervista resa ieri al Foglio si sia lasciato andare a un’improprietà che, magari senza intenzione, ripropone esattamente uno dei motivi di quella retorica avversa a Israele. Mi riferisco al tratto dell’intervista in cui Fassino argomenta che “la reazione violenta di Netanyahu ha suscitato un comprensibile moto di protesta”.
Il riferimento alla reazione violenta
Se infatti, discutendo di “reazione violenta”, Fassino avesse voluto riferirsi alla guerra di Gaza (non si saprebbe, francamente, a che altro potesse riferirsi), allora bisognerebbe osservare che no, due volte no. No, in primo luogo, perché la guerra di Gaza – violenta come ogni guerra, e anzi tanto più violenta perché Hamas ne ha imposto il combattimento tra i civili – non è il frutto di una deliberazione pazzoide del primo ministro, ma è la necessità cui è stato costretto il popolo di Israele per difendersi.
E no, in secondo luogo, perché il “comprensibile moto di protesta” di cui parla Fassino non è solo simbolicamente rivolto contro il Netanyahu raffigurato con le mani sporche di sangue: è rivolto invece contro il diritto dello Stato ebraico di difendersi e di sconfiggere quelli che vogliono distruggerlo. E quindi è “comprensibile” in quest’altro senso, quel “moto di protesta”: che Israele deve tutt’al più potersi difendere in linea teorica (e ormai neanche, perché siamo al punto che, in quanto Stato “occupante”, non ha neppure quel diritto), salvo smettere di poterlo fare quando comincia a farlo praticamente.
La presunta reazione violenta
Fassino sicuramente sa che una larga parte della società israeliana – compresa la porzione che per mesi ha manifestato contro il governo – addebita semmai a Netanyahu di aver lasciato a sé stesso il popolo in armi di Israele, di non aver fatto la presenza che era necessario fare nei luoghi dei massacri, di non aver chiesto scusa e di essere rimasto al suo posto quando l’esercito al suo comando dichiarava di aver fallito nella protezione degli israeliani il 7 ottobre. Ma i ragazzi e le ragazze che prima del Sabato Nero mostravano cartelli con scritto “Bibi dittatore” sono gli stessi che vanno a combattere e a rischiare la vita nei budelli di Gaza. I piloti dei caccia che nelle manifestazioni minacciavano renitenza sono gli stessi che vanno a bombardare le milizie filo iraniane che hanno incenerito la Galilea. Gli uni e gli altri non perché esecutori della “violenta reazione di Netanyahu”, ma perché sanno che il diritto di Israele di difendersi dipende dall’adempimento loro dovere di difenderlo. La presunta “reazione violenta” di un primo ministro screditato non c’entra nulla con la guerra che combattono i soldati israeliani. Ed è contro questi, contro i ragazzi e le ragazze che si difendono difendendo Israele, è contro di loro che insorgono i “moti di protesta” che Piero Fassino, a mio giudizio sbagliando, definisce “comprensibili”.