Caritatevoli: così ci sentiamo normalmente di fronte ad una persona con disabilità. È una persona sfortunata, merita tutta la mia carità, la mia affettuosa compassione, la mia commiserazione, la mia pietà.
Ora, pur rispettando la carità in quanto sentimento nobile, cristiano, misura di un amore vero, disinteressato, gratuito, proverei a metterla da parte e, quando vi troverete a contatto con una persona con una disabilità, vi consiglierei di sostituire la carità con la curiosità.
Le persone con disabilità intellettiva, normalmente, nella nostra società, non meriterebbero nemmeno il plurale, vengono considerate tutte uguali di fronte alle sfide della vita, prive di personalità, incapaci di avere una soggettività, incapaci di riconoscersi e di riconoscere. La disabilità normalizza, massifica, rende donne e uomini un unico monolite, somma le anime come se fossero pezzi di pongo di colore diverso, pronte ad assumere un colore unico dopo averle impastate. Tutto ciò è profondamente ingiusto per le donne e gli uomini con disabilità, ma è soprattutto falso e figlio di una conoscenza superficiale, senza alcuna profondità, priva appunto di curiosità. Quando sono state chiuse le classi differenziali, ad ispirare questa scelta, non ha prevalso un’idea di scuola caritatevole ma la scuola come luogo capace di stimolare la nostra curiosità, la nostra sete di conoscenza e lo scambio relazionale che nasce tra persone diverse, come costruttrice di coscienze che deriva da quello scambio. In parole povere: la presenza di bambine, bambini, ragazze, ragazzi con disabilità in classe, non è una condizione di vantaggio, di crescita, soltanto per chi è portatore di una fragilità, ma è, direi soprattutto, un’opportunità per chi detiene l’etichetta “della normalità”.

Nel programma scolastico così come troverete ore dedicate all’italiano, alla matematica, alla geografia, alle lingue, all’attività motoria, non troverete scritta alcuna ora dedicata ad una materia trasversale, impalpabile, impercettibile, ma non meno importante: l’inclusione. L’inclusione non è carità, non è nemmeno un processo unidirezionale del più forte sul più debole, non mira a formare bàlie, l’inclusione è scambio, è ricerca di metodi non convenzionali di comunicazione che ci portano alla riconoscibilità delle persone, oltre la superficie della disabilità. L’inclusione dà una presenza, un nome, alla persona che sembra lo abbia scritto soltanto nel registro di classe e assegna un nome a tutti noi, che smettiamo di essere anonimi ai suoi occhi. La paternità mi ha “costretto” a superare la superficialità della relazione convenzionale, le difficoltà delle comunicazioni con una persona, mia figlia, con cui non potevo permettermi una balbettante comunicazione di circostanza, mi ha spinto laddove non sarei mai arrivato, ci ha fatto conoscere e nel percorso di conoscenza siamo migliorati, cresciuti insieme. Io credo di essere adesso un uomo migliore e ho scambiato questo miglioramento nella società, nelle relazioni con tutte le donne e gli uomini che mi è capitato di incrociare. Questo è lo stesso processo che può essere raggiunto a scuola nello scambio tra i ragazzi, agevolato da insegnanti di qualità, con processi di inclusione che mirano a migliorarli come donne e uomini nella società.

Questo spiegherei, me ne fosse data l’occasione a Bjorn Hocke, uno dei principali esponenti dell’Afd, partito di estrema destra in Germania, che in una recente intervista ha affermato che l’inclusione è uno dei “progetti ideologici” da cui il sistema educativo tedesco deve essere “liberato, perché “non aiuta i nostri studenti” e “non li rende più produttivi”.
Per lui infatti la scuola deve trasformare “i nostri bambini e giovani negli specialisti del futuro”, e i disabili rappresentano un “fattore di stress” che deve “essere rimosso dal sistema educativo”.
Non mi pare di esagerare se dico che questi argomenti, espressi da una forza politica nazionale tedesca, nella terra in cui i nazisti misero in luce i “costi” del mantenimento in vita dei disabili, le cui vite venivano definite come “indegne di essere vissute” e attuarono il programma eugenetico che porterà all’uccisione di decine di migliaia di uomini, donne e bambini, rappresentano un segnale gravissimo da non prendere assolutamente sotto gamba. Costruire percorsi inclusivi è molto faticoso, lo so, una strada lunga ed impervia rispetto alla scorciatoia della “rimozione”, tuttavia la nostra scuola ha il compito di forgiare coscienze, non carrozzerie di automobili, non macchine senza anima, e quella strada merita di essere percorsa assaporando il gusto delle fatiche e dei successi che proprio per questo prendono sempre più valore.
Suggerirei calorosamente a Salvini, leader della forza politica che esprime la ministra per le disabilità in Italia, la generosa Alessandra Locatelli, di prendere le distanze da forze politiche come l’Afd, fondate su principi lontani anni luce da quelli espressi nel nostro Paese, che ha strutturato in tutti questi anni una scuola inclusiva. Una scuola patrimonio di tutti, fondata su sani principi, in cui le differenze sono fonte di ricchezza e non di mortificazione.