La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del Procuratore della Repubblica di Agrigento contro il provvedimento  con il quale la Giudice per le indagini preliminari il 2 luglio scorso aveva negato la convalida dell’arresto di Carola Rackete. La Comandante della Sea Watch 3 era stata arrestata all’atto dell’attracco in porto a Lampedusa per aver toccato in modo non intenzionale – l’espressione è coerente al modestissimo danno arrecato – una motovedetta della Guardia di finanza che, inopinatamente e improvvisamente, si era infilata tra la nave in  manovra e la banchina.

Non conosciamo ancora le motivazioni del rigetto, ma fin d’ora possiamo dire una cosa certa: quel provvedimento non era un’eccentrica scelta del Gip che, lo ricordiamo, richiamava la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di salvataggio dei naufraghi che la nave Sea Watch 3 comandata da Carola aveva a bordo, ma una scelta coerente con gli atti che erano a sua disposizione. Per quella scelta la giudice Alessandra Vella era stata prima additata come reproba dall’allora ministro degli Interni e, al suo seguito, oggetto di un linciaggio vergognoso sui social.

In realtà, a ben guardare – lo abbiamo rappresentato al giudice di legittimità in quest’occasione – la Gip aveva motivato rigorosamente all’interno dei binari di tutela della libertà personale descritti dall’articolo 13 della Costituzione e dalla norma del nostro codice processuale (art. 385 c.p.p.) che vieta l’arresto e il fermo solo che “appaia che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere…”. Del resto la Sea Watch aveva rappresentato in numerose comunicazioni all’autorità marittima, con rapporti medici e altre segnalazioni di bordo, gli elementi che facevano ritenere non più procrastinabile un attracco in porto e uno sbarco dei naufraghi. Erano dunque fin dall’origine chiari gli elementi sulla base dei quali veniva evocata l’esistenza di almeno due cause di non punibilità (adempimento di un dovere e stato di necessità).

Vale la pena ricordare il sofferto percorso di quella nave, l’attesa di ben 14 giorni al di fuori delle acque territoriali, l’ulteriore attesa di tre giorni in rada con le condizioni dei naufraghi che peggioravano rapidamente, lasciati sulla tolda esposti alle intemperie, con servizi igienici del tutto inadeguati (due servizi per ben settanta persone, uomini, donne, bambini e equipaggio), senza possibilità di intervenire con un’adeguata assistenza psicofisica nei confronti di chi proveniva da situazioni drammatiche ed era stato esposto a violenze, maltrattamenti e abusi. Una situazione inumana, resa possibile da quei famigerati decreti sicurezza – ancora in vigore ma che, vogliamo credere e sperare, non avranno vita ancora lunga – che venivano agitati come clave sulle spalle dei più deboli, manipolando l’opinione pubblica con discorsi dell’odio nei confronti dei salvatori e dei salvati.