L’intervista rilasciata a Repubblica, domenica, da Marta Cartabia, che è la presidente della Corte costituzionale – e cioè la principale custode della nostra democrazia – rappresenta uno dei momenti più alti del dibattito pubblico, in Italia, sul tema della giustizia. Ha un gigantesco valore politico e un valore morale e culturale ancora più grande.
Per la prima volta, da molti anni, dai vertici del nostro Stato si spezza una lancia contro il giustizialismo e il legalitarismo esasperato e a favore dei deboli, degli ultimi, e – soprattutto – dei grandi principi liberali e umanitari sui quali si tiene in piedi, o si dovrebbe tenere in piedi, lo stato di diritto.
A me, qui, interessa sottolineare alcuni passaggi, anche permettendomi di forzare un tantino le parole necessariamente diplomatiche, ma molto forti, della professoressa Cartabia. La presidente della Corte ha rilasciato questa intervista a un giornale che certamente non ha mai brillato per il suo garantismo. Da quando è nato – dai tempi della lotta armata e poi di Tangentopoli – ha sempre marciato nelle prime file del giornalismo militante amico delle Procure. In modo forte, impegnato e coerente. Assai più – probabilmente – di giornali più recenti e più arruffoni, come Il Fatto Quotidiano o La Verità. E anche la giornalista che l’ha interrogata, Liana Milella, è una professionista, certamente molto preparata e di gran valore e altrettanto certamente mai sfiorata dal sospetto di essere una garantista.
Credo che la presidente della Consulta abbia scelto bene, perché la sua intervista e le parole che ha pronunciato acquistano un valore ancora più grande e più netto. E mi pare che vada anche reso atto a Repubblica di avere compiuto una operazione giornalistica di valore, rafforzata, ieri, da una intervista al vicepresidente del Csm, Davide Ermini, che – seppure con molta prudenza – si è sistemato su posizioni vicine a quelle espresse da Marta Cartabia.
Sono quattro le cose che più mi hanno colpito nell’intervista della Presidente.
La prima è la nettezza con la quale prende di petto le contestazioni alla sentenza della Corte che nega la retroattività della cosiddetta spazzacorrotti. Spiegando a polemisti vari, e agli esponenti più scamiciati del partito dei Pm, che quello della non retroattività è un principio antichissimo e inviolabile del diritto. Lo fa con assoluta tranquillità, e senza intenti polemici. Ma il suo ragionamento è una frustata in faccia a quelli che hanno scritto e blaterato, probabilmente perché privi delle conoscenze più elementari del diritto.
La seconda è il coraggio con il quale la professoressa Cartabia si rivolta contro il senso comune e spiega che la certezza della pena non solo non è un valore, ma è un segno di inciviltà. Una società è tanto più moderna e civile, sul piano del diritto, quanto più la pena è flessibile e adeguata alle esigenze essenziali della giustizia, e non alla richiesta di vendetta o ritorsione.
La terza è la semplicità con la quale – di nuovo in urto aperto con il senso comune dominante – ci presenta i detenuti non come gaglioffi ma come deboli, poveri, ultimi, da proteggere, da difendere, da rassicurare sui propri diritti.
La quarta cosa, grandiosa, del discorso della Cartabia è la contestazione in radice del carcere. Lo so che sto forzando, ma dalle sue parole si trova un incoraggiamento a chi pensa che l’idea stessa del carcere, nel 2020, vada messa in discussione. Cartabia spiega che l’articolo 27 della Costituzione non parla di carcere ma di pena. E che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Sarà una bestemmia, dirlo, ma io lo dico: siamo sicuri sicuri che privare una persona della libertà, tenerla per cinque anni, o dieci, o venti, dentro una cella di tre metri, impedirgli di vedere i figli, o la mamma, o di avere una vita sessuale, di lavorare, di esprimersi liberamente, siamo sicuri che tutto questo non sia un trattamento inumano?
Non so se la Cartabia condivida questo mio dubbio. Non mi pare discutibile, però, che con quelle sue affermazioni abbia pesantemente messo in discussione il regime del 41 bis. Sul fatto che il 41 bis sia un trattamento inumano, e che non tenda alla rieducazione e che perciò sia in contrasto clamoroso con l’articolo 27 della Costituzione non mi sembra che ci sia discussione. E la professoressa Cartabia, con il suo modo diplomatico e gentile di parlare, ce lo ha fatto notare.
Dette queste cose – e tralasciati gli apprezzamenti per altre parti, altrettanto importanti dell’intervista – pongo un’altra questione. Se la presidente della Corte costituzionale – ripeto: la massima custode dei principi e del funzionamento della nostra democrazia – mette in discussione in modo così “frontale” tutta la politica giudiziaria – giustizialista – di questo governo e del governo precedente, possibile che né il governo stesso, né i partiti, e neppure i giornali se ne accorgano? O se ne sono accorti e fingono di non avere ascoltato? E il nostro giornalismo, che lascia l’anima se vede la possibilità di avere una dichiarazione di un sottosegretario, persino se cinquestellato, non ha nessun interesse per i discorsi della presidente della Corte costituzionale? Il nostro giornalismo conosce l’esistenza della Corte costituzionale? E il suo ruolo? E il suo peso?
Temo di no. Il mio editore – ve lo confesso – mi rimprovera sempre perché dice che sono pessimista. Mi dice: vedi che esiste una cultura alta e garantista che vive ai vertici di alcune nostre istituzioni? E sorride. (Mi ha detto così anche in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario). Io non gli do retta: temo che anche questa scudisciata della Cartabia andrà a vuoto. La Cartabia verrà messa al silenzio, e continueranno a vociare quelli tipo Travaglio….