Secondo l’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, le proposte in materia di riforma penale formulate – anche se non ancora ufficialmente – dalla Commissione presieduta dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi presso il Ministero della Giustizia «lanciano segnali positivi sotto diversi punti di vista» a partire dalla cancellazione della norma Bonafede sulla prescrizione fino ad arrivare al temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Però lancia un allarme: «Da tempo si tenta di trasformare il giudizio di appello in una specie di anticipazione del giudizio di Cassazione, espandendo il tema dell’inammissibilità e della manifesta infondatezza dei ricorsi. Mentre noi siamo radicalmente contrari e ci opporremo fermamente».

Presidente Caiazza partiamo dall’aspetto più divisivo della riforma: la prescrizione. Cosa ne pensa delle due proposte al vaglio della Commissione ministeriale?
Premettendo che al momento non abbiamo a disposizione i testi ufficiali della Commissione, posso dire che in generale, rispetto a quanto finora emerso, sul tema della prescrizione è stato dato un segnale positivo in quanto entrambe le soluzioni sono abrogative della sciagurata riforma dell’ex ministro Bonafede. In merito alle soluzioni: esse sono radicalmente differenti tra di loro. Credo che la prima proposta – sospensione della prescrizione dopo la condanna in primo grado, con ripresa se l’appello non si conclude in due anni e la Cassazione in uno – sia abbastanza convincente: è di fatto un sostanziale ritorno alla prescrizione targata Orlando ma in più, rispetto a questa, prevede che, se la Corte di Appello non pronuncia la sentenza nei due anni stabiliti, non solo, come già prevede la Orlando, riparte il computo della prescrizione ma in esso si calcolano anche i due anni di interruzione.

Invece la seconda proposta appare più articolata?
Prevede un sistema completamente diverso: la prescrizione classica del reato esaurirebbe i suoi effetti addirittura dalla richiesta di rinvio a giudizio. Poi però subentrerebbe una improcedibilità, una decadenza dell’azione penale per sforamento dei termini di fase. Si tratta di una ipotesi più complessa perché bisognerebbe riscrivere un intero sistema.

Sul fronte dell’appello, il pm non potrà più appellare né sentenze di condanna né di assoluzione, potendo ricorrere in Cassazione. Mentre l’imputato potrà ricorrere solamente per una serie di motivi previsti dalla legge. Secondo quanto trapelato da via Arenula, “non si vuole limitare la difesa, ma introdurre principi di maggior rigore per contestare la condanna di primo grado”. Che ne pensa?
Mentre noi registriamo una serie di indicazioni complessivamente molto interessanti da parte della Commissione istituita al Ministero, il tema delle impugnazioni ci allarma molto. Al di là del modo di presentare la questione, l’impressione che abbiamo è che si voglia introdurre anche per il giudizio di appello un principio di inammissibilità preventivamente valutato dal giudice di appello.

È un tema di cui si discute da anni.
Sì, certamente. Da tempo si tenta di trasformare il giudizio di appello in una specie di anticipazione del giudizio di Cassazione, espandendo il tema dell’inammissibilità e della manifesta infondatezza dei ricorsi. Mentre noi siamo radicalmente contrari: il giudizio di appello è e deve rimanere un secondo grado di giudizio, una ripetizione della valutazione di merito e non della legittimità della sentenza di primo grado. Siamo assolutamente contrari ad assegnare al giudice il potere valutativo sul diritto del cittadino di appellare.

Aggiungo due elementi: proprio l’Osservatorio Cassazione dell’Ucpi ha denunciato “l’insostenibilità di un sistema nel quale circa il 2/3 dei ricorsi per Cassazione cadono sotto la scure dell’inammissibilità”. Inoltre spesso il giudizio di appello riformula le sentenze di primo grado a favore degli imputati anche perché, ad esempio, si è lontani dal clamore mediatico iniziale.
Esattamente. Il problema è questo: il nostro sistema processuale, per quanto concerne il giudizio di appello, è sempre stato ispirato al cosiddetto favor impugnationis, che è un principio di civiltà fondamentale: l’atto di appello va salvato in ogni modo. Invece con l’ipotesi della Commissione ministeriale si affaccia un atteggiamento ostile che cerca di ridurre il diritto ad impugnare la sentenza di primo grado. Su questo faremo la più intransigente opposizione: questo deve essere molto chiaro. Siamo invece disponibili a dare il contributo dell’Ucpi ad una razionalizzazione dell’organizzazione e della trattazione delle udienze, sia di Appello che di Cassazione.

Infatti, sempre in merito all’Appello, il rito sarà camerale e solo su richiesta ci sarà la trattazione orale. Condivide?
Non siamo pregiudizialmente ostili a questa idea. È un tema sul quale abbiamo anche dichiarato alla Commissione di essere pronti a discutere, ponendo però fermamente un limite invalicabile: quando il difensore chiede la discussione orale non deve esistere altra possibilità di valutare, come invece qualcuno vorrebbe da più parti, la fondatezza della richiesta. La scelta di discussione orale è insindacabile ed esclusiva del difensore. D’altro canto già oggi i difensori che non compaiono in udienza o si limitano a riportarsi ai motivi scelgono di fatto di affidarsi alla natura cartolare del proprio atto di appello.

Cosa ne pensa invece della spinta data ai riti alternativi?
I segnali sembrerebbero positivi. Il dialogo che abbiamo avuto con la Commissione parrebbe quindi aver dato i suoi frutti: sono stati fatti passi avanti importanti anche dopo la nostra interlocuzione. I riti alternativi rappresentano la strada maestra per ridurre i tempi e il carico dei processi dibattimentali. Altro aspetto molto importante, che va nel senso da noi delineato, è il rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare.

In realtà manca proprio questa funzione.
Certo, le statistiche parlano del 97% di richieste di rinvio a giudizio accolte. Oggi al giudice è chiesto di formulare solo una prognosi sulla necessità del dibattimento. Per noi cambiare la regola di giudizio significa che il giudice dovrà andare più a fondo e valutare se vi siano, ovviamente in modo sommario, le premesse per l’eventuale giudizio di responsabilità. Naturalmente l’udienza preliminare si trasformerebbe così in un criterio molto più selettivo, come abbiamo scritto nel documento consegnato alla Commissione.

E invece come giudica il possibile coinvolgimento del Parlamento nelle indicazioni delle priorità relative ai reati da perseguire?
Si tratta di un fatto enormemente significativo. Se così sarà si tratterà dell’accoglimento di una delle richieste storiche dei penalisti italiani. È una ipotesi consacrata nella nostra proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere che, tra l’altro, prevede una modifica costituzionale addirittura del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale affidando al Parlamento la scelta delle priorità.