L’iter per la revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia, più nota come direttiva “Case green”, con l’approvazione del Consiglio dell’Unione europea è giunto al termine. Il testo entrerà in vigore dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea e gli Stati membri avranno due anni per recepire le disposizioni della direttiva nella loro legislazione nazionale. Italia e Ungheria hanno votato contro, astenute invece Repubblica Ceca, Croazia, Polonia, Slovacchia e Svezia. Il voto italiano non deve sorprendere; già a marzo 2023, alla Camera, era stata approvata una mozione parlamentare proposta dai gruppi di maggioranza volta a scongiurare l’introduzione della direttiva impegnando il governo ad attivarsi presso le istituzioni europee al fine di tutelare le peculiarità dell’Italia e, dunque, garantire al nostro Paese la necessaria flessibilità per raggiungere obiettivi di risparmio energetico più confacenti alle proprie caratteristiche.
L’obiettivo del governo non è stato raggiunto, tuttavia va detto che il testo approvato risulta meno invasivo, se così si può dire, rispetto a quanto proposto dalla Commissione europea a dicembre 2021. In sintesi, secondo la versione inizialmente proposta, dal 2030 tutti gli immobili residenziali avrebbero dovuto raggiungere almeno la classe energetica E, nel 2033 la classe D, per scalare gli standard più elevati entro il 2040 e il 2050, in base alle traiettorie dei piani nazionali così da poter arrivare ad un parco immobiliare a emissioni zero.
Il Green Deal Europeo
La riforma della direttiva sull’efficienza degli edifici rientra appieno nel Green Deal Europeo e nel pacchetto “Pronti per il 55%”, che del primo rappresenta la traduzione normativa (entro la fine di questo decennio le emissioni climalteranti dovranno ridursi di almeno il 55%), con cui la Commissione von der Leyen – scriviamolo pure – mira a passare alla storia. Un passaggio alquanto ambizioso visto che gli edifici europei sono responsabili del 40% del consumo energetico totale e del 36% delle emissioni di gas serra legate all’energia, anche perché si tratta di immobili piuttosto datati: circa il 35% dei fabbricati ha più di 50 anni.
Gli standard minimi
I posteri, tuttavia, più che le norme, ricorderanno i progressi effettivamente compiuti e gli obiettivi davvero raggiunti, che nel testo approvato sono un po’ più abbordabili. Dal 2030 tutti gli edifici nuovi dovranno essere a emissioni zero, mentre entro il 2050 tutti gli immobili esistenti dovranno essere ristrutturati per diventare a emissioni zero. La direttiva fissa degli standard minimi di prestazione energetica degli edifici non residenziali. Nel 2030 tutti i non residenziali dovranno avere prestazioni energetiche superiori al 16% di quelli con le prestazioni energetiche peggiori; nel 2033, la soglia salirà al 26%. A differenza dei testi precedenti, non sarà quindi più obbligatorio migliorare le prestazioni energetiche degli edifici raggiungendo livelli minimi di classe energetica prestabiliti. Gli Stati membri potranno prevedere esenzioni per immobili storici, luoghi di culto e militari. Gli Stati membri dovranno ridurre i consumi energetici primari medi delle abitazioni del 16% entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035. Almeno il 55% della riduzione energetica sarà ottenuta attraverso la ristrutturazione delle costruzioni più deteriorate, che rappresentano il 43% delle abitazioni meno performanti. Nei loro sforzi di rinnovamento, gli Stati membri metteranno in atto misure di assistenza tecnica e di sostegno finanziario, con particolare attenzione alle famiglie vulnerabili. I piani di ristrutturazione nazionale dovranno includere una traiettoria per l’abbandono delle caldaie alimentate unicamente a combustibili fossili entro il 2040. Dopo tale data sarà comunque possibile commercializzare caldaie ibride (per esempio, a gas naturale miscelato con gas rinnovabili, come biometano o idrogeno). Mentre le caldaie non ibride non potranno più essere commercializzate dal 2040 né incentivate, già a partire dal 2025. Le nuove regole – si legge nella nota del Consiglio – dovranno assicurare l’installazione di pannelli solari negli edifici nuovi, in quelli pubblici e quelli esistenti non residenziali in fase di ristrutturazione, nonché l’installazione di punti di ricarica per le auto elettriche, cavi per le nuove infrastrutture e aree per le biciclette. Qui per fortuna si parla principalmente di nuovo. Perché come sappiamo e vediamo quotidianamente, e non solo per i centri storici, rivoluzionare le costruzioni esistenti, in Italia, più che altrove, non sarà affatto facile.
Chi paga?
Una strada, già intrapresa, è quella di elettrificare i consumi finali (perché a tendere l’energia elettrica sarà sempre più prodotta da rinnovabili), che in ambito residenziale presentano un grado di elettrificazione inferiore di 6 punti percentuali rispetto alla media europea. Bisognerà però investire (parecchio) nelle reti elettriche, cosa costosa e non rapida. Anche la nostra performance in materia di classi energetiche non è brillante. Attualmente, nel nostro Paese, quasi il 70% di case e palazzi appartiene alle tre classi energetiche più basse: il 30% alla classe G, il 23 alla classe F e il 16 alla classe E. Mentre il 12% appartiene alla classe D e il 6 alla C e soltanto il 10% raggiunge le diverse categorie della classe A, gli unici edifici che potrebbero quindi essere considerati green. Senza contare che la maggior parte della popolazione italiana non risiede in grandi città dove il valore degli immobili tiene. Comprensibili dunque le parole del ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti: “È una bellissima e ambiziosa direttiva ma alla fine: chi paga? Noi abbiamo esperienze in Italia in cui pochi fortunelli hanno rifatto le case grazie ai soldi che ha messo lo Stato, cioè tutti gli altri italiani e diciamo che è un’esperienza che potrebbe insegnare qualcosa”. Ecco, il “chi paga?”, domanda peraltro tipica dell’economista, sarà il problema. Noi aggiungeremmo pure: “in quanto tempo” non riferito al debito, che pure si genererà, ma proprio alla realizzazione dell’efficientamento. La stessa direttiva comunque – come per le automobili che la politica europea vorrebbe (o voleva) elettriche – prevede una clausola di revisione al 2028. Anno in cui la Commissione riesaminerà la direttiva alla luce dell’esperienza acquisita e dei progressi compiuti durante la sua attuazione. Che sarà difficile in molti Paesi, ma, come ci hanno ricordato a botte di miliardi le super incentivazioni recenti, in Italia più che altrove.