Garantisti alle vongole
Casi Morisi e Lucano, spuntano strumentalizzazioni e opportunismo
Commentando gli affari di cronaca politico- giudiziaria, ovvero i casi Morisi e Lucano, su questo giornale Sansonetti commentava sconsolatamente il fatto che i garantisti veri, in Italia, si contano sulla punta delle dita di una sola mano, tanto da ipotizzare di poterli invitare tutti a casa sua per cena. Vedendo l’elenco degli illustri invitati, redazione del Riformista a parte, ho dapprima constatato con un sorriso amaro che tra gli eletti non figurava neppure un avvocato penalista, salvo poi considerare che il direttore probabilmente si riferiva a quelli che sono garantisti per indole e non per professione. Poi però, a rifletterci bene, la cosa mi è parsa naturale, perché tutto sta a definirlo il garantismo: il termine ed il concetto. Ed allora partirei da una prima considerazione provocatoria: fosse per me, e lo dico da tempo, la parola la cancellerei dal vocabolario politico perché è ormai priva di senso, usurpata spesso ma soprattutto svuotata di contenuto.
In ogni caso, e su questo Sansonetti ha ragione, non si può attagliare a coloro i quali pencolano tra il preteso garantismo ed il più sfrenato forcaiolismo, a seconda dell’oggetto del contendere, meglio del soggetto del contendere. Quelli sono solo opportunisti e rischiano di far del male all’idea anche solo appropriandosene strumentalmente. Chi invoca, giustamente, il rispetto della presunzione di non colpevolezza per Morisi, e poi taglia la testa in piazza di Lucano, condannato solo in primo grado e ancora non colpevole per la nostra Costituzione, appartiene a questa specie, in Italia molto prolifica e resistente, e dunque a casa Sansonetti merita di non essere invitato. La stessa fine meritano quelli che fanno l’esatto opposto. Non solo quelli, per capirci, che a proposito di i Morisdiscutono di un reato che non esiste ma anche quelli che prima recitano il predicozzo ”io sono garantista, aspetto che la magistratura etc etc” , poi dicono l’ovvio, e cioè che il medesimo era un bell’esempio di incoerenza tra stile di vita e pubbliche fatwe, ma infine, con un salto carpiato logico, applicano la proprietà transitiva al suo dante causa e capo politico, Salvini, accusando quest’ultimo di essere in contraddizione con se stesso. Ora, fin qui nessuno ha ipotizzato che il suddetto Salvini fosse a conoscenza delle privatissime frequentazioni del suo collaboratore, dunque tutti i commenti fondati su questo praticano uno sport antigarantista: quello di far diventare un giudizio “politico” null’altro che un pregiudizio fondato sulla sapiente fuoriuscita di notizie giudiziarie.
Un pregiudizio che si fonda sulla scimmiottatura di modi di fare appartenenti a quei sistemi politici, e quei complessi informativi, che scovano vizi privati anche dei collaboratori dei politici per costruire un sistema di responsabilità, per cui se si sceglie uno che poi a casa sua fa le porcherie il capo ne risponde comunque. Categoria politica, se vogliamo, ma che nulla ha a che fare con quelle del diritto cui pure il garantismo dovrebbe appartenere. Un terreno peraltro minato, che ha permesso inenarrabili ingiustizie sommarie consumate a mezzo stampa anche a prezzo di una incoerenza di fondo che forse è il caso di rappresentare. Qualcuno ricorderà la vicenda Martelli di qualche decennio fa, quello dei supposti spinelli fumati dal suddetto in Kenia, a Malindi. All’epoca, con singolare schizofrenia, il giornale della intellighenzia colta di sinistra, ovvero l’Espresso, fece una vera e propria campagna di stampa contro il malcapitato, con trasferta di inviati speciali dove il terribile misfatto s’era verificato. Essendo molto giovane ma già affetto dal virus del garantismo, chiesi ad un amico mio carissimo, che all’Espresso ha passato una vita, che diavolo di campagna fosse mai quella che metteva in croce uno per aver fatto, se l’aveva fatto, quel che non solo non era un reato ma che, nella loro privatissima esistenza, facevano in molti a via Po 32, dai piani alti ai piani bassi.
Soprattutto un comportamento che per esplicita linea editoriale dello stesso giornale, allora schiettamente antiproibizionista, non era un peccato, né dal punto di vista penale né da quello etico morale e neppure, se la politica deve riflettere in pubblico i comportamenti privati, francamente politico. Allora la risposta, schietta, fu che il povero Martelli, che non aveva caldeggiato politiche proibizioniste, pagava il conto in nome di Craxi, cui si doveva, invece, non tanto una diversa idea in tema di consumo personale di stupefacenti quanto una dichiarata avversione politica. Ragionamento cinico, spregiudicato, e per quanto detto decisamente antigarantista. Soprattutto un modo di fare profondamente incoerente visto che si attaccava un politico per aver, in ipotesi, praticato ciò quello stesso giornale proponeva di lasciar fare senza seccature giudiziarie e tutti cittadini.
Oggi che il caso Morisi va verso l’archiviazione, forse è il caso di riflettere anche sulla sua evidente strumentalizzazione sul piano extrapenale. Un terreno al cui limitare si affacciano storture assai più moderne, come molti dei processi e delle campagne stampa del mee too. E allora stabiliamo un corollario obbligatorio, chi è affetto dal virus antico delle doppie morali certo a casa Sansonetti non ha motivo di andare perché la patente di garantista implica la coerenza in questa virtù. Fin qui mi meriterei un invito anche io, penso. Ciò posto, a guardare bene, ma proprio bene, non è che molti dei commentatori della sentenza Lucano siano esenti da questo vizio. Partiamo dai dati di fatto, prescindendo dal giudizio di responsabilità sul quale è legittimo avere opinioni diverse visto che le motivazioni non le conosciamo: la pena che hanno applicato a Lucano è esorbitante, ma non perché sia illegale, ovvero politicamente orientata, o chissà che, semplicemente perché è molto alta, questo è l’unico dato certo che abbiamo. E allora, sulla scorta delle informazioni note, è troppo alta innanzitutto perché diversi gruppi di reati per i quali è intervenuta condanna, come si desume dalla lettura del dispositivo, non sono stati uniti dal vincolo della continuazione. Scelta tecnica, e di fatto, che potremo criticare quando capiremo come verrà motivata.
Per ora ci dobbiamo arrestare al fatto che secondo i giudici, che pure la continuazione l’hanno riconosciuta per gruppi imputazioni, tra una serie di reati, quelli contro la pa da un lato, ed alcuni di quelli contro la fede pubblica dall’altro, non risultava l’esistenza di un ”medesimo disegno criminoso” che avrebbe permesso il temperamento della sanzione complessiva in nome del favor rei. Un principio, se vogliamo, caro ai garantisti ed indigeribile ai Travaglio, che però presuppone l’accertamento di dati di fatto che nessuno ha fin qui discusso. Questo ha meritato al povero Lucano un trattamento sanzionatorio, quello del cumulo materiale delle pene, certamente più severo. Decisione non criticabile secondo l’orrendo leit motiv per il quale le sentenza “si accettano”? Ma manco per idea, solo che per criticare una cosa del genere prima devi vedere come è motivata, altrimenti mica sei garantista, straparli. Altra questione, la pena è troppo elevata e i suoi effetti perversi, perché in questo modo si è tolto di mezzo un personaggio politico che incarnava le virtù dell’accoglienza contro la barbarie di quelli che gli immigrati li vorrebbero accogliere con le cannoniere. Ergo strali contro la pena ingiustamente alta ed anche, visto che ci siamo, contro il particolare che per il solo fatto di essere irrogata in un processo in primo grado, produce la eventuale sospensione dell’eletto secondo la legge Severino.
Terreno minato anche questo, dove si chiederebbe un minimo di coerenza ai garantisti di ritorno, giacché non è possibile scandalizzarsi contro una legge che molti dei fan odierni di Lucano, fuori o dentro la magistratura, avevano sostenuto con forza in nome di campagne moralisteggianti sullo cui sfondo si intravedeva la silhouette del signor B… Eh sì che alcuni, garantisti veri, tra i cachinni di chi voleva in ceppi quello che etichettavano come il puttaniere/plurievasore, lo avevano detto a suo tempo. Chi condivise, tra i garantisti odierni, il bel pezzo apparso sul Corriere della sera a firma di due luminari del diritto come Marcello Gallo e Gaetano Insolera che spiegavano quanto perversa fosse l’applicazione retroattiva di quella normativa, ed anche la sua dubbia costituzionalità per il fatto di determinare in alcuni casi la sospensione al momento di una condanna non definitiva? Ed a proposito di pena, e della sua commisurazione, chi si ricorda, in quella che un tempo era la sinistra giudiziaria, gli accorati appelli di quei garantisti che all’epoca dicevano che le continue rincorse al rialzo del minimo della pena, in particolare per i reati contro la pa – che oggi si attesta a quattro anni per il peculato contestato a Lucano che pure comprende fattispecie concrete diversissime tra loro anche quanto a disvalore – era una follia che avremmo pagato caro?
Eccola la follia: Lucano, ma quanti altri hanno già pagato il conto? E non si dica che la cattiveria dei giudici di Locri è dimostrata dal fatto che a Lucano non hanno riconosciuto in questo caso la speciale attenuante, che pure la legge prevede per i reati di quel tipo, per fatti di “speciale tenuità”, perché i giudici italiani non lo fanno mai per somme come quelle contestate in questo caso. Anzi la negano, con giurisprudenza costante, anche per somme molto ma molto inferiori, anche qualche decina di euro; solo che di norma la negano “ai malfattori”, politici ed amministratori, e non ai Robin Hood e allora tutti sono contenti. Stesso discorso per l’attenuante del “particolare valore morale e sociale” della condotta che non è stata concessa, la cui applicazione si conta sulle dita di una sola mano, un po’ come i garantisti a casa del direttore. Non per personalizzare, ma se io penso – come in effetti penso – che la pena esemplare inflitta a Lucano sia ingiusta perché troppo alta, lo faccio perché dico anche, da una vita, che ingiusta è la legge che ne permette l’irrogazione minima in termini parossistici; ma quelli che la legge l’hanno voluta e scritta negli anditi ministeriali dovrebbero prendersela con se stessi.
Altra questione: chi ha abituato la pubblica opinione a dire che i giudici, e i pm, hanno sempre ragione, salvo distinguere in base al politically correct del momento, non dovresti trovarlo a muovere critiche feroci contro un dispositivo, però poi scopri che le stesse critiche sui dispositivi, e gli stessi appelli alla obbligatorietà di un verdetto in linea col pensiero comune, in genere le fanno contro le sentenze di assoluzione o di annullamento in Cassazione. Quelle che fanno titolare sui giornali oggi “garantisti” che una vicenda è rimasta “senza colpevoli”, come fosse un fallimento un processo senza condanne. Il garantismo non si misura sulle assoluzioni o le condanne, ma prima di tutto sulla costruzione di regole garantiste ed il loro rispetto, ed i cultori del doppio binario che strepitano oggi per “Mimmo”, come qualche pm calabrese, sembrano farlo in nome di un terzo binario che risiederebbe nella necessaria “accettazione sociale” delle sentenze che fa a cazzotti con l’autonomia e l’indipendenza di chi giudica. Se proprio si sono svegliati garantisti comincino a riflettere sulle brutture del doppio binario. E lo facciano assieme a quelli, politici, magistrati e giornalisti, che smascheri subito come garantisti fasulli, perché ripetono la solfa dei tredici anni che non si danno “neppure per mafia”, che non solo è un ragionamento assurdo ma anche, statisticamente, una balla. Il populismo giudiziario, quello che qualcuno ha dato anzitempo per morto nell’era Cartabia, sta anche in questo.
Ultima questione, legge e morale. Una sentenza immorale, s’è detto, anche da parte di autorevoli giuristi senza ancora poterne leggere la motivazione. Noi poveri garantisti per mestiere, e per cultura, sappiamo che se c’è un terreno minato è proprio quello che confonde l’una cosa con l’altra, lo studiamo nelle prime dieci pagine dei manuali all’università. Sappiamo anche che la pericolosa commistione tra l’uno e l’altro concetto produce un diritto penale mobile, quello preferito dai regimi, che per prima cosa liquida il principio di stretta legalità, quello sì concetto garantista da qualche secolo. Lo si fa in nome di nobili principi e delle magnifiche e progressive sorti per il popolo, in genere, contro un nemico cui non si riconosce il diritto a difendersi da un fatto determinato e con regole certe. Magari si arriva al risultato partendo da una condanna “moralmente” ingiusta o, a contrario, da un comportamento privato riprovevole per la maggioranza dei cittadini ma non considerato reato dalla legge, poi alla fine si arriva allo stesso punto, lo Stato Etico, ed è una jattura.
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