Lo scandalo oramai conosciuto come Qatargate e le polemiche sorte attorno alla candidatura di Francesco Rocca alla Presidenza della Regione Lazio sono vicende completamente diverse. L’una riguarda la pretesa corruzione di alcuni parlamentari europei e l’altra la pretesa inadeguatezza, per una vecchia condanna, del candidato scelto dalla destra.

Vi è, tuttavia, un tratto che accomuna le due vicende: esse sono state presentate come l’ennesima conferma di quante persone immorali e disprezzabili circolino ancora impunemente nelle stanze della politica e vadano, perciò, trovate e lapidate sulla pubblica piazza. Nel caso del Qatargate, al di là dell’irreversibile giudizio di colpevolezza che, nei media, ha ormai colpito tutte le persone coinvolte, basta considerare il compiacimento, con cui è stata data la notizia che, secondo fonti bene informate, i parlamentari europei colpiti dallo scandalo sarebbero ben sessanta. Nessuna analisi, viceversa, su quale sia stato il contenuto degli atti effettivamente adottati dal Parlamento Europeo e su quali dinamiche si siano sviluppate tra i gruppi parlamentari e i singoli componenti degli stessi.

Nessuna analisi politica, perciò. Solo lo scandalo legato alla possibilità che vi sia stata una illecita distribuzione di denaro. Nel caso di Rocca, nessuna considerazione di chi sia, oggi, Francesco Rocca e di quale sia stato il suo percorso di vita. Ha scritto su questo Giornale Davide Faraone (24/12/22): “Rocca nel 1984, a diciannove anni, subì una condanna a tre anni per droga…. Subito dopo aver scontato la pena, si laureò in giurisprudenza, divenne avvocato, ma soprattutto consacrò la propria vita al volontariato, prima alla Caritas e poi alla Croce Rossa italiana….Una storia di riscatto, di resilienza…”. Tutte e due le vicende, dunque, hanno costituito l’ennesima occasione per gettare discredito su chi si occupa di politica, vellicando la pancia di un popolo che, oramai da decenni, è stato sollecitato a fare del moralismo l’unico metro di misura della cosa pubblica. Si tratta, in fondo, dell’eredità di Mani Pulite.

Quella storia ha definitivamente ridisegnato le regole del governo della cosa pubblica. Soprattutto in due direzioni: innanzitutto grava una presunzione di indecenza e di immoralità su chiunque intenda rivestire un ruolo nelle istituzioni democratiche; in secondo luogo, i percorsi di vita, la capacità di riscatto, le qualità personali vengono tutte riversate in un frullatore impazzito, che fa emergere solo quella schiuma di ambiguità che è possibile trovare nella vita di ogni uomo (nei Vangeli persino Gesù pecca). Il che spinge i migliori a sottrarsi ai riflettori e lasciare spazio a quelli mediocri e più anonimi. Quanto accade, visto in questa prospettiva, mostra che vi è qualcosa di molto più grave del Qatargate e della vecchia condanna subita da Rocca: l’identificazione della politica come un mondo di malfattori sta portando a un costante profondo logoramento delle istituzioni democratiche.

Vi è la storia che lo dimostra. Sia in Grecia e sia in Cile, i Colonnelli nel primo caso e il generale Pinochet nel secondo hanno potuto fare affidamento su di un appoggio popolare che trovava le proprie radici in un generale sentimento di disgusto verso la politica, perché corrotta e inadeguata. In Italia, Mani pulite non ha, almeno sinora, portato a una deriva autenticamente autoritaria, ma certamente ha favorito un disprezzo diffuso per il sistema dei partiti e delle organizzazioni sindacali, che sono, viceversa, una componente indispensabile di un sistema autenticamente democratico, tanto da decretare il clamoroso successo delle manifestazioni di Beppe Grillo, il cui contenuto ideologico e programmatico si esauriva nel famoso “vaffa”. Si tratta, come appare evidente, di una base di consenso, che può essere fruttata da qualsiasi autoritarismo, che voglia abbattere il sistema democratico.

Prima di Mani Pulite e durante Mani pulite, il Partito Comunista, e poi i suoi eredi, hanno cercato di arginare questo pericolo, puntualizzando, ad ogni pie’ sospinto, che sarebbe stato profondamente ingiusto parlare genericamente di classe politica corrotta, essendo necessario ogni volta distinguere e che, anzi, una analisi attenta avrebbe dimostrato la loro estraneità a ogni malaffare. Come ha scritto Piero Sansonetti su questo Giornale (15/12/22) “il Pci – appena sciolto ma ancora esistente – pensò di avere trovato l’uovo di Colombo: i grandi cambiamenti sociali ed economici che iniziavano e la caduta del muro di Berlino ne avevano messo in crisi e reso obsoleta la politica, ma Tangentopoli si annunciava come uno strumento di resurrezione. Facile, immediato”.

A parte ogni considerazione sui finanziamenti dell’Urss e sulle cooperative rosse, oggi quell’argine appare definitivamente travolto, nel momento in cui emerge che lo scandalo del Qatargate sembra riguardare, quanto meno prevalentemente, proprio gli eredi del Partito Comunista. Né la questione può essere risolta e neppure salvata la pretesa superiorità morale dalla roboante dichiarazione di Letta, secondo cui il Partito Democratico è parte offesa. Una volta che la slavina del fare di tutta l’erba un fascio è partita, non è con mezzucci del genere che si arresta la valanga. Ecco, allora, che una meditata consapevolezza del rischio, che il modo di raccontare e di utilizzare queste vicende nella lotta politica porta ai sistemi democratici, dovrebbe indurre a un’altra modalità di comunicazione.

Deve esservi la consapevolezza che gettare un generico discredito sugli avversari significa aprire buchi sullo scafo di quella navicella che è la democrazia, certamente fragile, ma che continua ad essere pur sempre il meno imperfetto dei sistemi di governo che l’uomo conosca. Quanto detto non significa, ovviamente, sottovalutare la gravità delle accuse che sembrano formulare gli inquirenti belgi nel Qatargate. Il senso è un altro. Per usare una terminologia corrente e molto efficace, la delicatezza della posta in gioco, e cioè la tutela del sistema democratico, impone di stare bene attenti affinché con l’acqua sporca non si getti via anche il bambino.