La sentenza sul regista
Caso Ambrogio Crespi, la lezione per giudici e pm: basta carcere a tutti i costi
La decisione dei magistrati di sorveglianza di Milano, che hanno scarcerato Ambrogio Crespi il 23 giugno scorso, ha un valore che scavalca i confini del singolo caso. «Nei lunghi anni trascorsi dal fatto oggetto della condanna, ad oggi Crespi Ambrogio non solo ha condotto la sua esistenza nei binari della legalità, in una dimensione … che non ha registrato ombre, ma ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come di alto valore culturale di denuncia sociale e impegno civile, ed efficaci strumenti di diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità. Proprio questo impegno, che lo ha portato via via ad essere identificato come esempio positivo dal pubblico delle sue opere e da chi gli ha conferito vari riconoscimenti, appare come elemento eccezionale nella valutazione delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni per un reato riconducibile proprio alla criminalità organizzata».
Questo è quanto scrivono nell’accogliere la richiesta del differimento della pena, che scadrà il 9 settembre prossimo, a sei mesi dall’irrevocabilità della sentenza. A distanza di una decina di anni dal fatto, pur senza aver mai smesso di rivendicare la sua innocenza, Crespi accettava la decisione definitiva e l’11 marzo scorso si costituiva nel carcere di Opera. Dello «stile di comportamento tale da apparire certamente al di fuori del contesto detentivo» scrive la relazione dell’istituto penitenziario; l’assenza di collegamenti con la criminalità è l’esito delle rituali note delle direzioni nazionale e distrettuale antimafia. Evidente è l’anacronismo giuridico di una pena in carcere a ogni costo, che si scontra con l’urgenza di un correttivo in nome della giustizia sostanziale. Diversamente significherebbe accettare il rischio di trasformare la pena in una duplicazione del percorso di riabilitazione: se il carcere è rieducazione, la sua inutilità nei confronti di una persona chiaramente reinserita socialmente diviene trattamento inumano e degradante, seppur ritualmente disposto con una sentenza di condanna.
È qui che il caso Crespi fa i conti con un ordinamento, che non prevede l’ipotesi della rieducazione inesigibile al di là dell’automatismo della pena a ogni costo: cosa che fa il paio con l’irrinunciabile pretesa punitiva dello Stato, che utilizza l’alibi della rieducazione senza prevedere gli anticorpi a una pena ingiusta nei confronti del condannato che, durante l’attesa di un processo che duri ben oltre i tempi della funzione risocializzante della pena, abbia già dato prova di aver riparato nei fatti e di essersi riabilitato. È qui che si esprime tutta l’urgenza di riparare nell’ordinamento al rigorismo legislativo della pena che si presenti illogica: il fatto che Crespi fosse stato letteralmente dimenticato dallo Stato per quasi nove anni e che, solo a sentenza definitiva, fosse stato costretto a fare le valigie per entrare in una cella, era già un anacronismo. Del resto anche l’impegno artistico dei suoi film costituirebbe una forma di riparazione. La domanda di grazia è stata per Crespi la richiesta di un atto di clemenza che, come scrivono anche i magistrati nel considerarla non manifestamente infondata ai fini del differimento della pena, risponde a “un’esigenza di rimedio agli anacronismi legislativi”.
Ciò avviene in un contesto normativo, in cui la irrinunciabile pretesa punitiva dello Stato, in termini di carcere ad ogni costo, va a braccetto con l’automatismo della pena detentiva per condanne al di sopra dei 4 anni – soglia che non ha limiti nel caso si versi nell’ipotesi dei reati dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Nel suo ultimo Congresso, Nessuno tocchi Caino dedicò un’ampia discussione al tema del diritto penale e della pena in una sessione dal titolo, appunto, “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Oggi, anche in attesa del Congresso che si terrà a dicembre, conforta sapere che la Guardasigilli Marta Cartabia, emerita Presidente della Consulta, abbia dichiarato di recente che una riforma del sistema penale non possa lasciar fuori, senza essere incompleta, la materia dell’esecuzione della pena: sullo sfondo c’è la sua idea di un sistema sanzionatorio che si orienti verso il superamento del carcere, come unica risposta al reato, e che dia spazio all’incremento del valore delle condotte riparatorie.
Vogliamo essere speranza e augurarci che il caso Crespi possa costituire fonte di ispirazione per un rinnovamento dell’esecuzione penale, che non consideri più il carcere come l’unica via della rieducazione. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano è una traccia perfetta per una riforma legislativa, tanto necessaria quanto urgente, volta ad affrontare e risolvere le migliaia di altri casi di condannati in via definitiva per i quali la pena carceraria può rivelarsi in concreto non solo inutile, ma anche dannosa.
© Riproduzione riservata