"Il signore delle formiche"
Caso Braibanti, Gianni Amelio non ha detto la verità: il direttore dell’Unità non licenziò nessuno
Ha fatto discutere in rete il falso storico contenuto nell’ultimo film di Gianni Amelio. Il regista inventa la notizia del licenziamento di un giornalista dell’Unità, reo di aver seguito in maniera simpatetica la vicenda di Aldo Braibanti, ricoperto dalla procura di Roma con una “orribile cappa mefistofelica” (le parole, fuori dalla finzione cinematografica, sono del quotidiano fondato da Gramsci). Nel 1964 il filosofo-artista era finito sotto processo per “plagio”, con un capo d’imputazione in cui confusamente confluivano omosessualità, ateismo, panteismo, tendenze ideologiche e anche un amore sospetto per le formiche. Lo stesso giorno della condanna, nel 1968, nella prima pagina del foglio del Pci compare un articolo dedicato alla morte del filosofo Galvano Della Volpe.
Proprio Della Volpe potrebbe prestare soccorso per dipanare la spinosa questione, di ascendenza aristotelica, del rapporto tra poesia e storia, segno e contesto. Insomma: la creazione artistica può ricorrere, per ragioni di rappresentazione o forma, al falso in merito ad una condotta individuale o particolare? Suggerisce Della Volpe che l’organicità del discorso filmico, con i suoi risvolti tecnici specifici che ne caratterizzano il linguaggio, in quanto rappresentazione dell’universale, può scostarsi dalla descrizione del fatto ma non sino a perdere verosimiglianza. Tocca ai critici cinematografici stabilire se obbedisca a delle stringenti ragioni artistiche lo spirito di vendetta attribuito al dispotico direttore dell’Unità, che secondo il film tipizza un’azione repressiva che ogni esponente comunista farebbe. Al pubblico è invece lecito chiedersi se, con l’invenzione della cacciata del cronista, non si intenda ricercare un espediente per accompagnare il pur legittimo cammino di un lavoro a tesi. Accanto ad una ragione artistica si unisce un obiettivo estrinseco, cioè impoetico, per sostenere una battaglia politica contro la trinariciuta anima di una subcultura rossa dal regista ritenuta estranea al progredire delle libertà civili.
Entro questa visuale, il film opera anche come ricostruttore di un contesto, e però lo fa con prove narrative poco credibili nel corroborare la storia dei ritardi dei vertici comunisti nella comprensione delle libertà individuali e nell’accettazione dei nuovi orientamenti sessuali. Una conferma significativa la offre la rivista della nuova sinistra “Quaderni piacentini”, in quegli anni non proprio tenera verso il Pci. Dopo il silenzio (il regista Bellocchio venne pure ascoltato dai giudici in qualità di teste), dedicò nel numero di luglio un breve articolo non firmato che inizia proprio con una lunga citazione del pezzo assai duro verso la magistratura apparso sull’Unità. Esplicita era la chiosa: “per una volta siamo d’accordo con l’Unità”. Mentre i grandi giornali borghesi del tempo come La Stampa e Il Giorno, scrive la rivista, “non hanno mai celato un certo schifo per l’imputato”, un settimanale radicale-democratico come L’Espresso “non ne ha mai parlato”, il giornale del Pci in perfetta solitudine “è passato all’attacco”.
Riconsiderata a oltre mezzo secolo di distanza dagli accadimenti tipici di un’Italietta bigotta, la copertura che il giornale di via dei Taurini diede alla vicenda processuale in effetti colpisce per l’apertura, la curiosità, insomma la nettezza della presa di posizione. Un giovane cronista, Paolo Gambescia, che si vede catapultato dai paesaggi abruzzesi alle cronache di un processo scabroso celebrato in una grande metropoli, segue con regolarità il dibattimento. I titoli sono sempre all’insegna della partecipazione ad una battaglia civile: “Sentenza da caccia alle streghe. Vivaci proteste contro i giudici”. Al cospetto dei toni del quotidiano non regge la coerenza razionale, o concepibilità artistica, dell’evento del direttore che licenzia un giornalista in odore di modernità. Già nel 1967, prima della pronuncia della sentenza di condanna, si legge: “In Assise un filosofo per plagio”. Il falso licenziamento, oltre che irreale, è una trovata irrazionale anche ai fini dello svolgimento narrativo, visto che l’Unità condanna sempre con forza le “tesi oscurantiste del Pm” che raffigura Braibanti come un “diabolico invasore di spiriti”. E si scaglia contro la sua demagogia reazionaria (“venivano in mente le requisitorie contro Savonarola, contro gli eretici medievali”).
Per l’Unità, che esalta le manifestazioni davanti al Palazzaccio, è in corso un vero e proprio processo politico organizzato da una magistratura politicizzata che intende celebrare “un rito di esorcizzazione contro gli intellettuali e gli artisti d’avanguardia”. In questo senso, la ricostruzione di Amelio è poco persuasiva non tanto perché falsa, ma perché lo svolgimento drammatico (il licenziamento del giornalista) è un fatto del tutto inaspettato, e dunque un costrutto irrazionale, privo cioè della spendibile connessione causale che deve pur accompagnare la narrazione.
Uno sbocco tragico, se risulta incredibile una volta considerato sul piano della logica e della coerenza delle azioni, può tramutarsi in un più o meno incisivo colpo politico inferto al Pci. Resta però che, con il prendere a schiaffi la razionalità della narrazione, il regista si avvale di una forzatura sul terreno dell’invenzione artistica, che non può permettersi di spezzare nessi causali credibili. Il fatto narrato (licenziamento), anche se non viene misurato semplicemente sulla griglia reale-irreale che l’opera d’arte sempre scavalca, risulta comunque non razionale.
Dinanzi ad una copertura come quella dell’Unità, pur con tutto il riconoscimento dovuto alla fantasia, persino al furore artistico che può trasfigurare i fatti, poco credibile (in senso di narrazione cinematografica) appare il ritrovato filmico, che sembra invece funzionale ad un lecito attacco politico-culturale. Nella misura in cui anche nei film spuntano tracce di conoscenze storiche, nelle immagini in questione la storia reale come sempre possibile viene tradita e però resa irrazionale perché l’organo comunista, ribadendo che l’amore omosessuale non è “plagio”, stigmatizza con forza “il processo alle idee e alle tendenze particolari”. Insiste il giornale anche su un punto rilevante: “Il magistrato cita Freud, Marcuse e Vasilev ma non riesce a nascondere la sostanza profondamente reazionaria delle sue argomentazioni”. Se per essere artistico-poetica una invenzione deve comunque risultare razionale (una azione incredibile è impoetica), allora il processo alla cultura comunista non possiede i crismi della credibilità. Sabato 13 luglio infatti l’Unità dedica addirittura tre articoli alla vicenda. Uno parla dell’iniziativa del senatore Ossicini, l’altro del dibattimento e un terzo è l’editoriale del direttore Maurizio Ferrara contro un “processo aberrante”.
La penna, per giunta di un “destro” del partito, è di una nitidezza esemplare. Critica i giudici, i “poteri costituiti” che sono in perfetta continuità con la cultura del ventennio (il giustizialismo non è mai stato nelle corde della consapevole sinistra italiana). La passione civile suscitata dalla “torva borghesia clericale di Piacenza” lo fa insorgere contro “un reato inesistente” come quello di plagio o influenza e contro una brutale repressione penale di scelte individuali. Rilevante, a segnalare l’abisso che separa le parole di allora dalle costruzioni odierne di una destra che demonizza l’identità di genere, è quanto Ferrara scrive contro “un rilancio dei temi dell’Inquisizione, una chiassata avvocatesca contro il terzo sesso”. Se paragonata alle credenze della destra che oggi è divenuta egemone, l’impostazione di Ferrara sulla questione dei diritti nella sfera sessuale pare caratterizzata da uno spirito laico e quasi libertino. Paiono scritte contro le parole fresche della Meloni, sullo sport come “cura della devianza”, le frasi in cui si contesta il fascismo con la sua lotta “in difesa del conformismo razzista che voleva i giovani tutti fusti, tutti rasati a zero”.
Rispetto all’omofobia, che ancora circonda lo spazio pubblico, Ferrara è di una nettezza assoluta: “Se c’è qualcosa di marcio che il processo Braibanti sta dimostrando, non è tanto l’esistenza dell’omosessualità, quanto la ferocia razzista, il dileggio becero, l’odore di linciaggio che il suo sospetto scatena in ambienti nei quali la morale si identifica con il moralismo più oscurantista e repressivo; tanto più spietato quanto più ipocrita e attestato su una tradizione benpensante marcia fino alle midolla, che scatena, ogni giorno, drammi e contraddizioni laceranti”. Nell’ostilità verso le tendenze omosessuali c’è una “ferocia razzista”, il “dileggio becero” di persone che vengono scaraventate entro un dramma e sottoposte a pratiche di “feroce linciaggio”, ad una “orgia di oratoria da Inquisizione”: insomma, atteggiamenti da “caccia alle streghe”, che a quasi sessant’anni di distanza ancora proseguono e giustificherebbero un intervento normativo per colpire l’omofobia. A smentire la storiella di una cultura comunista arcaica, Ferrara invita a comprendere quanto “di nuovo, e anche di sconosciuto, si agita nel profondo della società e della morale tradizionale”. La repressione, il moralismo, la difesa della famiglia non servono a nulla perché “più lontane, più profonde, sono le radici del malessere della famiglia tipo e della gioventù, delle forme di crisi e di rivolta”.
Un film non è un documento storico costretto al riscontro obiettivo in ciò che realmente è accaduto, ma, appunto per questo, dovrebbe avvertire, nel suo linguaggio peculiare, la necessità semantica di ricorrere a segni che risultino comunque adeguati allo sforzo di dosare verosimile e inverosimile. Se l’urto tra il direttore e il cronista avrebbe dovuto incarnare per Amelio qualità tipiche più generali (il conformismo repressivo del Pci), i riferimenti storici evocati non sono in grado di conferire un verosimile fondamento per garantire la credibilità della narrazione. Postulare che gli intellettuali comunisti sono stati ostili ai diritti è un assunto dogmatico, un pregiudizio quindi, che non solo non corrisponde al reale svolgimento delle cose (si può anche fare cinema, arte, poesia tradendo il reale, ma non costruendo uno svolgimento del tutto irrazionale), ma che evidenzia l’impossibilità che i fatti siano realmente potuti accadere nella maniera immaginata nel film. Se è vero che in arte è credibile ciò che è possibile, non è verosimile che siano accaduti su ordine di Ferrara i fatti repressivi narrati nella finzione cinematografica.
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