Al centro il processo di rieducazione e di cambiamento
Caso Crespi, rivoluzione del Tribunale di sorveglianza: “Il carcere non serve a punire”
Non vorrei mettere in difficoltà la Presidente Rosanna Calzolari e le tre colleghe (Benedetta Rossi, Letizia Marazzi, Benedetta Faraglia) del Tribunale di sorveglianza di Milano che hanno concesso il differimento della pena a Ambrogio Crespi. Non vorrei che queste giudici si sentissero tirate per la giacchetta se dico che la loro ordinanza, che recepisce largamente gli argomenti di un’altra donna, l’avvocato difensore di Crespi, Simona Giannetti, mette al centro della funzione della pena non la vendetta e la punizione, ma il processo di rieducazione e di cambiamento del condannato. E in un certo senso dimostra anche la scarsa utilità del carcere per il reinserimento nella società e per la ricucitura dello strappo attuato con la trasgressione, con il reato. Una rivoluzione copernicana. Si può dire?
Nel caso di Ambrogio Crespi poi c’era ben poco da rimediare, non avendo lui commesso il reato di concorso esterno in associazione mafiosa per il quale è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione. Il regista aveva semplicemente partecipato a una campagna elettorale della Regione Lombardia a sostegno del consigliere Domenico Zambetti, poi eletto e nominato assessore. Ricerca di preferenze (ma quando si deciderà il Parlamento ad abolirle?) nel modo tradizionale di tutti i partiti. Con qualche frequentazione di troppo, cosa che tra l’altro, oltre a danneggiare Crespi, rovinerà completamente la vita di Zambetti, portandolo a pesanti crisi esistenziali, e determinerà anche la caduta dell’ultima Giunta Formigoni. Con le mafie e con i boss nessuno dei due accusati e ora condannati aveva niente a che fare. Ma i concorsi esterni non si negano a nessuno, e la storia di Ambrogio Crespi è talmente esemplare e simbolica dell’irrazionalità paranoica dell’amministrazione della giustizia, che andrebbe raccontata e spiegata nelle scuole.
Non è stato il carcere ad aver rieducato Ambrogio Crespi, ma è suo il merito di aver “usato” la prigionia e l’ingiustizia per diventare maestro di Stato di diritto e di lotta alla mafia con la cultura e con le regole. Tutta la sua attività di artista e di vero divulgatore della cultura della legalità, come ricordato nell’ordinanza, ne ha fatto una persona addirittura incompatibile con lo stato di detenzione. Del resto la sua custodia cautelare non è durata a lungo, e il gip lo aveva scarcerato su richiesta dello stesso pm. Ma ancora permangono nei suoi confronti molti sospetti, determinati dal fatto di essersi lui sempre dichiarato non colpevole del reato che gli viene attribuito. Retropensieri che sempre riguardano chi non si assoggetta alla forza dello Stato che, se ti ha catturato, ti vuole, quasi per necessità, colpevole e genuflesso, meglio se “pentito”, cioè reo confesso e delatore.
Nel caso di Crespi lo si deduce in modo evidente dalle stesse relazioni della Direzione nazionale antimafia, della Dda di Milano e della Divisione Anticrimine della Questura di Milano. Pareri necessari (anche se non vincolanti, in teoria) dopo il decreto di un anno fa arrivato a correggere la circolare umanitaria (oltre che sensata) del Presidente del Dap Francesco Basentini, poi costretto alle dimissioni da una furibonda campagna mediatica contro “le scarcerazioni dei boss”. Che erano stati solo cinque, in realtà, e avevano semplicemente goduto per un breve periodo, in quanto anziani e malati, proprio del differimento della pena. E le giudici del tribunale di sorveglianza di Milano che si erano pronunciate su quei casi, insultate da quelli del “buttiamo la chiave”, erano state costrette a ricorrere al Csm con una pratica di autotutela.
Ambrogio Crespi non solo in tutti questi anni, a partire dal 2013 quando è stato scarcerato fino a quando si è costituito, l’11 marzo scorso, dopo la sentenza definitiva della Cassazione, ha mantenuto il comportamento di un bravo cittadino che lavora ed è attaccato alla famiglia, ma ha fatto molto di più, con la sua attività culturale si è addirittura sostituito a quel mancato educatore che è il carcere. L’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Milano elenca le sue opere, i successi, i premi. I pareri delle istituzioni “antimafia” e della stessa questura di Milano sono positivi: non risulta che in tutti questi anni vissuti da uomo libero il regista milanese abbia mai avuto cattive frequentazioni o sia stato in qualche modo contiguo a organizzazioni mafiose. Però.
L’elenco dei “però”, assunti anche dalla giudice di sorveglianza che per prima ha esaminato e poi respinto la richiesta di differimento pena, è lì a dimostrare la strettoia culturale che passa dal “fine colpa mai” fino ad arrivare al “fine pena mai”. Scrive la Dna il 21 marzo scorso che Crespi “non ha collaborato in nessun modo con la giustizia” e che “potrebbe fornire ancora un supporto conoscitivo utile”. Ma soprattutto che “..la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, non è certo superabile in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo e nemmeno in ragione di una sola dichiarata dissociazione…”.
Se questo è il ragionamento, se questa è la cultura di chi deve dare suggerimenti ai tribunali di sorveglianza, alcuni articoli della Costituzione come il 27 o il 111 sul giusto processo sono già cancellati. E se a questo aggiungiamo il fatto (non mi stancherò mai di ricordarlo) che la Presidenza del Dap, voluta dall’ex ministro Bonafede e mantenuta da Marta Cartabia, è nelle mani di due magistrati “antimafia”, è apparentemente inutile parlare di rieducazione e reinserimento nel contesto sociale del condannato. Pare quasi che sia più educativo denunciare i propri amici che dichiararsi innocente. Per fortuna in Italia non esistono solo i pubblici ministeri e non decidono solo quelli che si proclamano “antimafia” (come se -repetita juvant- fosse compito dei magistrati lottare contro i fenomeni sociali), ci sono anche i tribunali di sorveglianza.
Quello di Milano presieduto da Rosanna Calzolari ha proprio operato una rivoluzione copernicana. Ha spostato dal centro dell’universo giudiziario la pena e vi ha messo la rieducazione. Ha esaminato con attenzione gli argomenti usati dal difensore che, insieme a una serie di associazioni di altro valore morale e sociale, ha presentato al Presidente della repubblica la domanda di grazia per Ambrogio Crespi, e li ha considerati fondati. Dando un giudizio positivo sul, come di dice, “fumus di non manifesta infondatezza”. Perché non ci sono ombre, nella vita di questo condannato. Perché ha usato la sua professionalità, le sue capacità, la sua intera vita, in questi anni, al servizio di “denuncia sociale” e “impegno civile”. E per «la difficoltà di collegare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri… con l’uomo di oggi, divenuto un simbolo positivo anche della lotta alla mafia..».
Poteva mancare la tiratina di orecchie ai colleghi “antimafia”? Non è mancata. Infatti «le stesse Dna e Dda non hanno portato elementi di contenuto rispetto alla generica affermazione che il condannato potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile». Infatti non hanno potuto esimersi dal constatare «… l’assenza di elementi attestanti, nell’attualità, la pericolosità del soggetto e collegamenti dello stesso con la criminalità organizzata». Benissimo, possiamo concludere.
Abbiamo un condannato che non solo è innocente (solo chi è accecato dal pregiudizio non lo vedrebbe), ma è un artista di grande successo soprattutto per opere tematiche sulla giustizia, ed è anche uno che fa pubblica propaganda per la lotta contro il potere mafioso. Abbiamo poi una brava e tenace avvocata e un tribunale di sorveglianza composto da quattro magistrate attente e che non si fanno intimidire dai colleghi molto apprezzati dalla stampa. È sufficiente questa rivoluzione copernicana al femminile? Speriamo.
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