«Le verifiche su quanto accadde dall’arresto al trasferimento in Tribunale non furono fatte con la necessaria dedizione». L’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette, a distanza di undici anni dalla morte di Stefano Cucchi, strappa dunque il velo di omertà che ha avvolto fino ad oggi quanto accaduto nella caserma di Roma Tor Sapienza. Del Sette, in pensione dal gennaio del 2018, ha deposto ieri nel processo sui depistaggi da parte dei carabinieri sul decesso del geometra romano. La sua testimonianza era stata richiesta dalla famiglia Cucchi, costituitasi parte civile.

«Sarebbero bastati pochi controlli per capire che non era stato fatto il fotosegnalamento. Quel documento veniva citato ma non appariva mai. Evidentemente poteva esserci una ragione per cui questo fotosegnalamento non fosse stato mai allegato», ha sottolineato l’ex comandante generale. Del passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici dopo il suo arresto non c’è traccia. Dal registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento il nome di Cucchi, come si accerterà, era stato cancellato con il bianchetto.
«Non è una pratica normale, può capitare che il fotosegnalamento non avvenga per problemi ai sistemi informatici, ma in genere si cancella il nome con una riga orizzontale, non con il bianchetto», aveva spiegato uno dei carabinieri chiamati a testimoniare nelle scorse settimane.

«Ho comandato due compagnie, di cui una era la Roma centro. Durante questo periodo ci sono stati centinaia di arresti ed è chiaro che il comandante di compagnia non può controllare tutti gli atti. Detto questo però, dopo un fatto grave come la morte di Cucchi, le verifiche dovevano essere più oculate», ha quindi concluso Del Sette. Un altro tassello importante per ricostruire cosa effettivamente accadde la sera del 15 ottobre del 2009, il giorno dell’arresto di Cucchi, arriverà il prossimo 22 dicembre, con la testimonianza del maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, l’allora comandante della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, la caserma dove venne trattenuto Cucchi prima di essere portato a piazzale Clodio per la direttissima. Colombo Labriola, dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia per falso ideologico e materiale nell’inchiesta per l’omicidio di Cucchi, aveva chiamato l’appuntato Stefano Colicchio.

I due avevano il telefono intercettato. Colombo Labriola rimase sorpreso dall’essere chiamato a rispondere dei falsi che, nell’ottobre del 2009, sarebbero stati direttamente ordinati, secondo l’accusa, dal Comando di gruppo Carabinieri Roma (nella persona del suo capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo) per dissimulare le reali condizioni di salute di Stefano dopo il pestaggio subito la notte del suo arresto e per il quale sono stati già condannati i responsabili. Colicchio, in particolare, insieme all’appuntato Francesco Di Sano era di piantone alla caserma di Tor Sapienza quando vi venne portato Cucchi dopo essere stato arrestato dai colleghi della stazione Appia con l’accusa di spaccio di stupefacenti.

L’appuntato si accorse subito che qualcosa non tornava nello stato di salute del geometra romano e decise di chiamare l’ambulanza, redigendo poi una relazione di servizio sull’accaduto. Tale relazione, su ordine del colonnello Alessandro Casarsa, comandante del Gruppo di Roma, sarebbe stata modificata, omettendo le effettive condizioni di salute di Cucchi. Ad aiutare Casarsa ci sarebbe stato il suo più stretto collaboratore, il colonnello Francesco Cavallo, ed il maggiore Luciano Soligo, comandante della compagnia Roma Monte Sacro. Il motivo? «Procurare l’impunità dei carabinieri della stazione Appia» responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che il successivo 22 settembre gli determinarono il decesso.

E, probabilmente, anche evitare un altro danno d’immagine all’Arma dal momento che poche ore dopo la morte di Cucchi venivano arrestati i carabinieri autori del ricatto al presidente della Regione Lazio Pietro Marrazzo. Colicchio, però, si rifiutò di firmare la relazione “corretta”. Sul banco degli imputati ci sono anche il colonnello Lorenzo Sabatino, ex comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Roma, ed il capitano Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del dipendente Nucleo investigativo. Incaricati dal pm romano Giovanni Musarò, titolare del fascicolo, di svolgere accertamenti su quanto accaduto, sarebbero stati a conoscenza che le annotazioni di servizio, quella di Colicchio e quella di Di Sano, erano false.

Sabatino, in particolare, dopo l’acquisizione degli atti si sarebbe limitato ad elencare la documentazione prelevata presso i vari comandi, “omettendo di denunciare la sussistenza del reato e omettendo di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa”. “Se hanno indagato me, allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa (il colonnello Alessandro, all’epoca comandante del Gruppo carabinieri Roma) e Tomasone (Vittorio, comandante provinciale dei carabinieri)”, concluse, profetico, Colombo Labriola. Tranne Tomasone, i primi due ufficiali vennero poi indagati per i depistaggi.