Le recenti rivelazioni dell’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon, in occasione della presentazione del bel libro di Alessandro Barbano, aventi ad oggetto la sentenza sul caso Ferri (la n. 157/2023), emessa lo scorso mese di luglio, riportano di attualità il tema dell’uso delle intercettazioni nei confronti dei parlamentari, mai avvertita con la dovuta attenzione dall’opinione pubblica, eppure assolutamente centrale per il nostro Stato di diritto.
Già nell’immediatezza della pronuncia, seguita ad appena sette giorni di distanza dalla decisione sul caso Renzi (la n. 170/2023), ebbi ad evidenziare, insieme a pochi sensibili commentatori, il repentino cambio di orientamento della Consulta su due conflitti di attribuzione inerenti a fattispecie del tutto affini, per le quali veniva applicato un metro completamente difforme.

Le dichiarazioni di Zanon raccontano del travaglio in seno al collegio che precedette l’adozione della sentenza, testimoniato dall’inconsueta sostituzione del redattore, dettaglio che aveva già destato l’interesse degli osservatori più smaliziati, sebbene sia rimasto, poi, sullo sfondo dei commenti formulati all’epoca e non affrontato fino in fondo, afferendo ad elementi destinati a restare confinati nel sancta sanctorum, se non adeguatamente portati alla luce.
La riapertura della questione avvalora adesso le perplessità già espresse in altre sedi intorno all’iter motivazionale seguito nella circostanza, tanto più in considerazione degli effetti che una diversa valutazione dei fatti avrebbe prodotto sui procedimenti disciplinari nei quali le intercettazioni erano state utilizzate.

Con successivo comunicato stampa diramato il 19 dicembre, la Corte ha fornito alcune precisazioni sul tema, invocando, da un lato, la riservatezza dei lavori in camera di consiglio e richiamando, dall’altro, l’ipotesi, prevista dalle sue norme integrative, che il relatore originariamente designato possa chiedere di essere esonerato dalla redazione della motivazione.
Nel comunicato, tuttavia, si omette di osservare che il medesimo relatore era stato, altresì, contestualmente designato per il conflitto di attribuzioni che riguardava il senatore Renzi, deciso con la sentenza n. 170 di cui lo stesso è stato il materiale estensore, preferendo ricercare, con argomentazioni invero poco convincenti, presunte differenze tra le due questioni per giustificare i diversi approdi cui sono pervenute le rispettive pronunce.

Si può dire, anzi, che, considerata l’irritualità dello strumento prescelto e la vaghezza del contenuto, la Corte non sia propriamente riuscita nello scopo di diradare le nebbie che si sono venute ad addensare sulla vicenda sin dalla scorsa estate, aggiungendovi, se possibile, ulteriori profili di dubbio.
In contemporanea praticamente con la diffusione della nota, la Camera negava per la seconda volta al CSM l’autorizzazione ad utilizzare nel procedimento disciplinare a carico di Cosimo Ferri le intercettazioni captate mediante il trojan inoculato nell’utenza telefonica di un ex membro togato dell’organo di autogoverno della magistratura.
La lettura degli atti parlamentari consente di ricostruire, una volta di più, la vicenda nei suoi reali contorni giuridici, soffermandosi, in particolare, sul giusto bilanciamento tra gli interessi costituzionali in rilievo, anche con il conforto della giurisprudenza europea, inopinatamente ignorata nella sentenza Ferri, che limita, in maniera oramai costante, la conservazione dei dati relativi al traffico di comunicazioni dei cittadini alla sola lotta alle forme gravi di criminalità e alla prevenzione di minacce gravi alla sicurezza pubblica.

Analogamente, dall’istruttoria condotta dalla Giunta per le autorizzazioni è emerso che, su un arco temporale complessivo di oltre 4 ore, durante il quale sono state effettuate le captazioni, risulterebbero mancanti 52 minuti e 3 secondi di registrazione (!), il che rende a maggior ragione inutilizzabili i materiali acquisiti.
Rimane, dunque, come ribadito, d’altronde, dallo stesso comunicato stampa della Corte, la possibilità di criticare le sue sentenze, esercizio nel quale non dovrebbero mai smettere di cimentarsi gli addetti ai lavori, con la serietà ed il rigore richiesti da una così delicata operazione intellettuale.
Ebbene, gli sviluppi ulteriori brevemente ripercorsi in questa sede impongono di tornare con minore timidezza sulle contraddizioni in cui è incorsa la Consulta nella sentenza Ferri, poiché qui non si parla soltanto di preservare certe, peraltro sacrosante, prerogative parlamentari, ma anche di garantire il rispetto di diritti e libertà inviolabili, ovvero di questioni che attengono al corretto equilibrio tra i poteri e ai fondamenti più essenziali della nostra civiltà giuridica.

*Professore ordinario di diritto pubblico Università telematica Pegaso

Luca Longhi

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