La discrezionalità, assolutamente irresponsabile, dei pubblici ministeri nell’esercizio delle loro funzioni inquirenti e requirenti nel processo penale è ormai un fatto ampiamente riconosciuto. Il caso Palamara ci ricorda come questo pericoloso fenomeno si verifichi anche nel procedimento disciplinare e come anche qui i comportamenti discrezionali vengano, o possano comunque essere, condizionati dagli obiettivi che il Pm vuol perseguire. Nel formulare i capi di incolpazione contro Palamara il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, avrebbe potuto certamente includere molti dei comportamenti che risultavano dalle intercettazioni del telefonino di Palamara e chiedere alla sezione disciplinare del Csm di ascoltare la testimonianza dei numerosi testi richiesti dalla difesa.

Ha deciso di non farlo e le ragioni ce le spiega in un articolo di risposta a Paolo Mieli, il quale aveva lamentato che quel processo disciplinare, essendo “fulmineo e senza testimoni”, aveva impedito la compressione dei fenomeni gravemente disfunzionali che le registrazioni delle telefonate avevano messo in luce. In risposta a quanto detto da Mieli lo stesso Pg Salvi ha scritto un articolo sul Corriere del 25 settembre 2020 in cui ha detto di aver limitato il capo di incolpazione, a un solo “fatto molto preciso” e cioè il fatto che «costituisce illecito la condotta del magistrato che si riunisce con parlamentari e consiglieri per decidere chi saranno i procuratori della Repubblica». Che quindi egli ha di conseguenza valutato, come lui stesso scrive, che non fossero «necessari né 133, né 13 testimoni. Bastavano le intercettazioni…».

Un orientamento, subito condiviso dalla sezione disciplinare del Csm, che ha consentito di raggiungere obiettivi di grande interesse per la corporazione dei magistrati. E cioè, sia il merito di aver eliminato con grande prontezza la “mela marcia” della magistratura sia quello di aver evitato che i 133 testimoni richiesti dalla difesa di Palamara, come ipotizza lo stesso Mieli, rendessero evidenti le cause del diffondersi e consolidarsi nel corso degli anni di quelle pratiche correntizie che ormai da decenni caratterizzano le modalità decisorie del Csm, e non solo per la nomina degli uffici direttivi. Sono disfunzioni che il Procuratore generale Salvi conosce benissimo per essere stato un attivo componente di una delle correnti della magistratura (Magistratura democratica) in seno al Csm, proprio nel Consiglio di cui anche io facevo parte.

Meglio, quindi, evitare che l’ascolto dei 133 magistrati, politici e altri ancora, indicati da Palamara a sua difesa potessero rendere pienamente e clamorosamente evidenti al largo pubblico le disfunzioni del Csm e il grave danno da esse arrecato alla funzionalità stessa del nostro claudicante apparto giudiziario. In chiusura del suo articolo sul Corriere della Sera il Pg Salvi fornisce anche altre informazioni su cui si dovrebbe riflettere, in particolare la classe politica, anche per l’implicita, velata, arroganza che le caratterizza. Dopo aver riconosciuto che la richiesta di Palamara volta a ottenere che fossero ascoltati numerosi testi era “legittima”, il Pg Salvi difende la decisione, sua e del suo ufficio, di aver circoscritto le accuse a quella del solo incontro di Palamara «con politici e consiglieri per decidere chi saranno i procuratori della Repubblica», e conclude dicendo di aver ritenuto che fosse opportuno lasciare «ad altre sedi il dibattito sulla magistratura e sui suoi problemi e sul ruolo del Csm».

Una concessione che suona come una beffa perché il Pg Salvi sa benissimo che i partiti politici e i parlamentari italiani, in larga maggioranza, non amano fare cose sgradite alla magistratura, molti per autoprotezione contro devastanti iniziative penali, molti altri anche perché da decenni adusi a un reciproco soccorso (come è il caso del maggior partito della sinistra). Una sola forza politica ha raccolto la sfida del Pg Salvi, il Partito radicale che, nel solco delle iniziative di Pannella, ha predisposto, per iniziativa dell’avvocato Rossodivita, un disegno di legge che prevede la costituzione di una commissione di inchiesta parlamentare sul caso Palamara e le sue implicazioni, una commissione che ascolti anche i testi che il Csm non ha voluto sentire, e che possa condurre a una vera riforma del Csm. Per molto meno in altri Paesi democratici si sono effettuate indagini parlamentari sull’operato della magistratura, ma mai finora in Italia.

Riteniamo opportuno aggiungere due postille.
La prima. Nel procedimento disciplinare il Ministro della Giustizia ha non solo un autonomo potere di iniziativa, ma anche quello di poter ampliare i capi d’incolpazione per fatti che il Pg non considera rilevanti. Nel caso di Palamara il ministro Bonafede non ha ritenuto di farlo. Peccato. Dall’audizione dei testi avrebbe forse potuto capire quanto inefficace e inutile sia il progetto di riforma del Csm da lui formulato.
La seconda. Nelle mie ricerche mi sono più volte occupato delle gravi disfunzioni del Csm a partire dagli anni ‘60, e certamente non posso qui illustrarle. Le considero, comunque, tanto rilevanti e gravi da aver dato a una loro rappresentazione sintetica il titolo di “Il contributo del Csm alla crisi della giustizia” (www.difederico-giustizia.it).