PQM
Caso Toti, qualcosa non torna: tra recidiva e dinamica dei provvedimenti cautelari
La vicenda processuale del Governatore Toti, riassunta puntualmente nella scheda più sopra, ripete, all’osso, uno schema che il penalista conosce per viverlo quotidianamente: il rischio di reiterazione del reato, esigenza posta pressocché sempre a base di una misura cautelare, è quasi connaturato all’idea stessa dell’ordinanza che la dispone; è, per dirla con le parole dei giuristi aulici, quasi in re ipsa.
Caso Toti, qualcosa non torna
In questa prospettiva, nondimeno, la storia di Toti squarcia un velo, perché racconta l’immanenza di quel rischio con il clamore del caso mediatico e, dunque, anche a coloro che penalisti non sono. E così, anche chi non navighi le acque del processo penale, leggendo il provvedimento cautelare – siamo davvero sicuri che non sarebbe meglio lasciarlo appannaggio degli addetti ai lavori? – è messo in condizione di percepire che qualcosa non torna; e sotto almeno due profili.
Recidiva
Il primo, di natura generale, è che, nelle circonvolute affermazioni dei provvedimenti cautelari, il rischio di reiterazione del reato – peraltro fin lì solo indiziariamente affermato – sussiste… perché sussiste, dacché se l’indagato ha delinquito una volta potrebbe farlo ancora. Inferenza larghissima, insomma, quasi casuale. Con buona pace degli indici presuntivi a cui la legge si illudeva di agganciarne la ricorrenza e dei falliti tentativi legislativi (l’ultimo nel 2015) di dare concretezza e attualità al rischio cautelare di cui si dice.
La dinamica dei provvedimenti cautelari
Il secondo, che invece attiene più specificamente al caso, è che i provvedimenti cautelari sono armi affilatissime, molto più che le sentenze di condanna. L’agire politico del Governatore Toti – per stare alla nostra occasione di ragionamento – resta incagliato infatti in un circuito argomentativo che suona più o meno così: ha commesso i fatti in ragione del ruolo che ancora riveste; e siccome, per il principio sopra richiamato, se lo ha fatto una volta può rifarlo, l’unico modo per farlo desistere è rinchiuderlo. A meno che, scelga lui, non lasci la cabina di regia del misfatto, dimettendosi; al verificarsi del che, la gabbia si apre.
L’ingerenza
La ferrea dinamica di questo argomento (che è invece logicamente davvero fragile quanto agli elementi su cui cammina) porta con sé un corollario assai più pericoloso, ci pare, del rischio che si vorrebbe scongiurare: la funzione giurisdizionale si ingerisce di fatto nella gestione della cosa pubblica, sovvertendo il principio democratico-rappresentativo. È giocoforza, si dirà, dacché un crimine fu commesso. Ecco il punto e, al contempo, il motivo per cui si diceva che l’ordinanza cautelare taglia più di una sentenza: l’ingerenza avviene in un momento in cui non sono ancora distribuiti torti e ragioni e non è infrequente che, alla fine, del quadro indiziario che ha sorretto la cautela resti davvero poca roba. Intanto però il sovvertimento c’è stato: quella Giunta, quel Sindaco, quel Governatore hanno cessato le funzioni in ragione di un pericolo percentualmente impalpabile, articolato su un diallele in cui la premessa (che si debba scongiurare un rischio) insegue la conclusione (che il rischio sussista nel caso di specie) senza frutto.
Le nuove letture, indagine e sentenza
E che non siano mere elucubrazioni da penalisti lo racconta appunto la novella del 2015, la legge n. 47, che introdusse attualità accanto a concretezza come caratteristiche obbligate del pericolo di reiterazione utile a sostenere la misura. Qualcosa, sin lì, non sembrava insomma aver funzionato a dovere se il legislatore ha ritenuto addirittura di intervenire per via normativa. Anche la storia di quella norma però racconta qualcosa: i timidi segni di freschezza nelle letture giurisprudenziali della questione, che sembravano irrobustire l’idea della concretezza nel senso auspicato dalla norma, sono stati presto sopravanzati da letture più antiche e ancor oggi invalse. È quasi come se la partita si giocasse su un altro tavolo che quello della puntuale valutazione di un caso; è quasi come se la distanza che separa l’indagine dalla sentenza, affievolendo il clamore dei fatti e sbiadendo nella prospettiva il rischio di effettività della sanzione, consigli ancora, in ragione di un mai risolto equivoco cognitivo, di anticipare in qualche modo la retribuzione della malefatta. Che poi la malefatta si riveli solo immaginata, interesserà a pochi; al più, a qualche testardo avvocato.
© Riproduzione riservata