Gestire la città
Casse del Comune vuote, trovare alternative al default

Con quali soldi? L’impressione è che la questione, per quanto delicata, non tocchi Napoli. Con quali soldi potare gli alberi, raccogliere i rifiuti, finanziare il trasporto, illuminare le piazze e manutenere il patrimonio? Qualcuno dovrebbe pur rispondere, eppure i nostri decisori pubblici sembrano non avere alcuna intenzione di farsi irretire nella discussione. Per questa ragione, ad esempio, de Magistris ha adottato una tattica bivalente. Un giorno la butta sul demagogico, annunciando azzeramenti unilaterali del debito cittadino che in realtà sono solo inviti allo Stato a fargli la grazia. Il giorno dopo lascia parlare gli altri, così che la sua immagine possa rimanere intonsa e a debita distanza da problemi tanto scomodi. Quando parla Antonio Decaro, presidente dell’Anci, veniamo così a sapere che “i sindaci sono pronti a consegnare le chiavi delle città al governo, perché tra due mesi qui salterà tutto”.
Siamo dunque a un punto assai critico. In queste settimane, a vario titolo, le amministrazioni comunali hanno già ottenuto, dallo Stato, circa quattro miliardi come ristoro per lo sconquasso provocato dalla pandemia. Ma non bastano, perché sui bilanci già in rosso pesano ora anche i mancati incassi delle imposte locali, a cominciare da quelle versate dai turisti; e per questo dalle città arriva pressante la richiesta di risorse aggiuntive. Il vice di Decaro, Roberto Pella, rivela anche un possibile piano B: i sindaci puntano a una consistente rimodulazione del debito dei Comuni contratto con la Cassa depositi e prestiti e con le banche. “È l’unico modo per farci uscire dal pantano e permettere agli enti in dissesto e predissesto di ricominciare a camminare”, spiega Pella.
In totale, sono circa 800 su 8mila i Comuni italiani che rischiano di fare default dopo l’estate. All’interno di questa lista ce n’è poi un’altra, ancora più nera, che comprende molti capoluoghi del Mezzogiorno. E tra questi Catania, Taranto, Reggio Calabria e naturalmente Napoli. Se altrove, però, già prima dell’emergenza virus, molte amministrazioni avevano messo in campo piani di riequilibrio pluriennali con l’obiettivo di aumentare le entrate e diminuire le spese, non si ha notizia di come il Comune di Napoli intenda uscire da questa lunga nottata: specialmente se il piano A e il piano B dovessero rivelarsi il primo ancora insufficiente e il secondo non del tutto praticabile. Il dissesto può dunque essere evitato? E come? Qualche giorno fa, Umberto De Gregorio ha provato a porre queste domande sul Corriere del Mezzogiorno, ma con scarsa fortuna. Non solo il sindaco, ma anche i partiti di opposizione sembrano del tutto disinteressati al tema. Perciò colpisce il silenzio di chi vuole comunque rimettere in piedi la “gestione” complessiva della città.
Ieri, su questo giornale, Matteo Belfiore, giovane architetto napoletano che da anni lavora in Giappone, ha spiegato come da quelle parti siano riusciti a riprogettare rilevanti spazi pubblici grazie alla collaborazione tra enti locali e capitale privato; e ha aggiunto che la stessa strada potrebbe essere proficuamente attuta anche qui. Ipotesi di questo tipo sono già state avanzate negli anni passati (l’Insula della vecchia dogana) e altre (ad esempio quelle formulate dal professor Marco Salvatore) sono invece venute fuori in questi giorni, nel corso della discussione sulla Napoli del dopo lockdown. Ma se nessuno le raccoglie, c’è poco da sperare. Resterà la prospettiva di un illimitato e asfissiante debito pubblico che, come spesso accade nei momenti terribili, ci farà scivolare in una sorta di stato di incoscienza, con tutta l’attenzione rivolta non ai problemi seri, ma a quelli futili. Sempre che non sia già arrivato quel momento.
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