L'editoriale
Cecilia Sala, una trattativa che non decolla: dall’allarme tardivo alla Farnesina a quel panettone mai arrivato
«Non si parli di Cecilia Sala». Il mantra, ripetuto a lungo, non tiene più. Il «prudente silenzio» invocato non sta risolvendo niente.
A questo punto è chiaro che una indignazione autentica sia meglio, se vogliamo riportarla a casa, di una ipotetica trattativa. A quanto consta, mai decollata. Il Procuratore generale di Milano non ha concesso i domiciliari a Muhammad Abedini. E non c’è trattativa che tenga: Sala va liberata senza condizioni. E con urgenza. Perché pretendiamo il rispetto dello stato di diritto. Ma anche perché, secondo le parole della stessa giornalista detenuta a Evin, nel braccio controllato dai pasdaràn, dal suo arresto a oggi le condizioni della sua detenzione sono rimaste inaccettabili, degradanti.
È costretta a dormire a terra, al freddo. Sopravvive mangiando i pochi datteri che una mano ignota le passa sotto la porta della cella. Si chiama tortura.
E se a poco servirebbe la foto di gruppo al termine della riunione tra maggioranza e opposizione, chiesta ieri da Italia Viva, anche la strategia dell’astensione mostra i suoi limiti. Un ministro aveva dichiarato che Cecilia è detenuta «in condizioni dignitose». Un altro ha invitato ad «astenersi dalle congetture».
La Farnesina non aveva capito
Bene, dunque parlino i fatti: la Farnesina non aveva capito in quali condizioni si trovasse Sala. È normale? L’allarme preventivo che doveva arrivarle dalla nostra intelligence il 16 dicembre, informandola del pericolo derivante dalla prassi iraniana degli arresti incrociati, non le è mai arrivato. L’ambasciatore iraniano è stato convocato per la prima volta ieri alla Farnesina, quattordici giorni dopo l’arresto-sequestro. L’unico gesto ufficiale della diplomazia si è concretizzato con la visita in prigione della ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, che ha dovuto parlare alla Sala in inglese, controllata dai carcerieri, e ha lasciato loro un pacco per la nostra connazionale. Conteneva una maschera per gli occhi, perché la cella rimane illuminata a giorno anche di notte, e un panettone. Un gesto simbolico per scaldare il cuore di Cecilia Sala durante la crudeltà di questa prigionia sotto le Feste. Quel passaggio del morbido dolce natalizio forse è parso sin troppo singolare, di una appetibile, vulnerabile singolarità. Abbiamo appreso ieri che il pacco non è mai stato consegnato, e che il panettone sarebbe stato, in tutta probabilità, mangiato dai carcerieri della giornalista.
Il rispetto delle istituzioni italiane
A proposito di gesti simbolici, ecco come viene considerata l’autorevolezza delle nostre istituzioni, nel girone dell’inferno di Teheran. Sbocconcellate, forse sputando via i canditi. D’altronde, li lasciamo fare indisturbati: dopo due settimane nessuno ha ancora pensato di proporre una mozione di censura all’Onu ma neppure di convocare una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata iraniana a Roma. Ci sarebbe, per la verità, uno street artist – l’unico, per il momento – che ha dedicato un’opera di denuncia e radunato una piccola folla in solidarietà con Cecilia Sala. Al théâtre national de la Colline, a Parigi.
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