I russi purtroppo sono ricaduti in una loro antica malattia da cui non si riescono a schiodare e che li fa affondare sempre di più. Il loro capo e mentore Vladimir Vladimirovic Putin (superato solo da Milhail Medvedev, con cui Putin faceva la spola tra primo ministro e presidente, un po’ di girotondo intorno alla Costituzione) ha lanciato la versione più aggiornata della pubblicità piagnona: i russi non sono amati dai cavernicoli benché abbiamo regalato al mondo i migliori scienziati e letterati, al punto da denigrarci mentendo e umiliandoci con sanzioni.

Quando Putin risponde a queste accuse totalmente inventate e paranoiche fa come il Charlie Chaplin nel Grande Dittatore, che lanciava in aria un mappamondo di gomma, mentre lui – più moderno – fa bowling con le testate nucleari.
Negli ultimi giorni la Federazione russa ha chiuso i siti di una quantità di testate giornalistiche e televisive europee. Il motivo è la ripicca: voi ci mettete al bando? E noi vi rendiamo la pariglia. Putin però non ha tutti i torti. I lettori del Riformista sanno quanta simpatia generi l’uomo del Cremlino, ma ho trovato triste e inutile il fatto che le autorità italiane hanno tolto dai miei schermi RT, un bellissimo network televisivo in inglese – zeppo di notizie false e manipolate – fatto funzionare come le grandi rete americane.

Solo che invece è russo e tratta i fatti come li raccontano i russi a casa loro. Quasi sempre bastava rovesciare le affermazioni e le negazioni di quanto dicevano i giornalisti per avvicinarsi alla verità. Tra i giornali italiani nel serbando in Russia ci sono La Stampa, La Repubblica, la Rai e La7. C’è una ragione specifica perché un tale provvedimento sia stato preso? Sì, il dispetto, la mancanza di rispetto nei confronti dei lettori e ascoltatori russi più fortunati che parlano più lingue affinché possano leggere la versione europea delle notizie.
Questa operazione di censura brutale e autolesionista (nel caso avessero a cuore i vantaggi dei cittadini russi a conoscere più fonti del racconto della storia) è stata definita come una sanzione.

La parola sanzione ha un significato univoco e non ha niente a che fare con la censura. Chiudere in Italia alcune emittenti russe in seguito alla guerra in Ucraina è stato uno sciocco e degradante atto di censura: ha dato l’impressione, del tutto sbagliata, che noi italiani non possiamo accedere al giornalismo altrui. Ma chiamare sanzione la censura è un’ingiuria alla morale, al diritto e alla storia. Quando l’Italia fascista aggredì il Regno di Abissinia – membro della Società delle Nazioni – Mussolini aggiunse l’aggettivo “inique” e da allora chi ha memoria le ricorda col nome posticcio di “inique sanzioni”, cui i laboriosi italiani risposero facendo diventare Piazza Venezia un campo di grano.

Dunque esprimere ai colleghi de La Stampa, della Rai, de La Repubblica e de La7 la nostra indignata solidarietà è poco ma va fatto a voce alta. Sodali e indignati per ciò che è stato fatto attraverso la censura per rappresaglia al giornalismo italiano, è il minimo sindacale. Ma è anche un’occasione per tornare sui nostri passi nella scena del delitto: il delitto di reagire alla prima invasione di uno Stato europeo da parte di un altro Stato europeo (lasciamo perdere le invasioni in Cecenia e in Georgia, le aggressioni in Siria) dopo quella di Hitler (e di Stalin) in Polonia nel 1939.

Abbiamo campato in pace per più di settant’anni grazie alla glaciazione. La nostra colpa è stata quella di stare al gioco delle ripicche anziché spiazzare, imbandendo la Grande Festa della cultura russa. Tutto cominciò quando decisero di non far cantare dei russi alla Scala. Dominique Meyer, sovrintendente, annunciò che in seguito alla guerra scatenata da Putin non avrebbe più avuto luogo la prima del Boris Godunov di Modest Musorgskij, che sarebbe dovuta andare in scena il 7 dicembre del 2021. Fu la più meschina occasione persa. Censurare lascia un buco e puzza di acido. Mentre con intelligenza sfrontata si sarebbe potuto aggiungere al programma una rassegna storica sul più importante teatro di Mosca, il Bolshoi. Nei 22 vergognosi mesi dell’alleanza attiva nazi-sovietica (durante i quali in Urss sparirono i libri degli ebrei comunisti e vennero chiusi in magazzino tutti i film antifascisti) al Bolshoi cantavano sempre donne nibelunghe, per la gioia del personale diplomatico e militare del Terzo Reich. Putin nel 2019 dichiarò che tutto quel che successe allora non accadde mai e comminò anni di galera a chi sostenesse il contrario.

E poi a Milano come a Roma, Venezia, Napoli, Torino e Palermo si sarebbero potuti ingolfare di Cechov, Puskin, Gogol, Dostoevskij, proiezione di Zivago, esposizione dei libri di Bulgakov, Ostrovsky, le sale piene dei pittori (specialmente quelli d’avanguardia che Stalin trattò alla maniera di Hitler). Questo elenco di getto è minuscolo perché non contiene scienziati popolari come Mendeleev, con la sua tavola degli elementi non ancora scoperti, e tutti i fisici che hanno guidato il primo round dell’esplorazione spaziale. Si sarebbe potuto allestire uno stand sui nuovi stabilimenti iraniani in terra russa dove si costruiscono bagnarole volanti, dette shahid, piene di tritolo con cui far saltare i denti ai bambini ucraini quando sono a tavola.

E’ Putin che va isolato

Sarebbe stata meravigliosa una mostra sulla censura russa ai tempi del MVD e del NKVD (che restituì alla Gestapo i comunisti tedeschi rifugiatisi sotto le ali appiccicose di Stalin), col diavolo di Bulgakov sotto i tram di Mosca e poi la suprema istituzione del KGB. Una mostra fotografica anche sul conclave delle Ziguli nere alle porte di Mosca per selezionare il giovane Papa Vladimir Vladimirovic (perché aveva tutte le competenze giuste) e metterlo al fianco di Boris El’cin, l’ultimo imperatore che avrebbe ammainato la bandiera sovietica.
Perché sarebbe stato un bene agire così anziché al contrario? Primo: perché la censura è il mestiere di Putin e con lui non si deve competere. Poi per veicolare questa notizia: noi amiamo la Russia e vorremmo sapere che cosa accadrà di questo immenso (da Berlino a Tokyo) impero incapace di produrre geni. Un matematico, un creatore tecnologico come Steve Jobs, un poeta, un musicista, un pittore alla via Arbat che poi diventa Pollock. La Russia non deve sentirsi sola, ma è Putin che deve essere isolato come sostiene l’ex primo ministro laburista inglese Tony Blair.

Cultura sterilizzata

Due o tre note da ricordare. Già molto prima del patto nazi-sovietico, il ministro degli Esteri nazista Von Ribbentrop rimase stupito atterrando nella Mosca di Stalin, vedendola tappezzata di bandire, svastiche e composizioni che unificavano i simboli nazisti con quelli della Rivoluzione d’ottobre. Con tanto di ghirlande, di falci e martelli. Cosa poi ripetuta nella città ex polacca di Brest-Litovsk, dove le bande e i vessilli vennero graficamente mescolati. Quell’età oscura va illuminata: il ministro degli Esteri sovietico Maxim Litvinov, che aveva tentato la strada dell’alleanza anti-nazista con le disprezzate democrazie, fu cacciato e sostituto dall’impassibile Molotov che rilanciò (d’accordo con Stalin) l’adorabile aggettivo “socialfascisti” per indicare i socialisti riformisti. Sarebbe ancora interessante illuminare anziché oscurare. Mettere in scena anziché umiliare. Fare della cultura russa il punto di forza.

Quindi, certo, solidarietà ai colleghi censurati, ai quali non è certo sfuggita la crescente propaganda putiniana sui social. Che fare? Oscurare? Troppo debole. Forse rilanciare le bottiglie inesplose sarebbe la cosa giusta per far fiammeggiare la cultura russa. Ma nei tempi di Putin il rubinetto è rimasto a secco: escono poche gocce e qualche formica. Putin ha sterilizzato la cultura, arresta gli omosessuali, arresta chi protesta e arresta le ragazze russe come fa arrestare i suoi generali per corruzione. Dove sono i vignettisti? Dove abita la propaganda della verità, sempre pendente dalla parte sbagliata? La butto lì. Io ci sto. Chi ci sta?

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.