La marcia cha aprì le porte al fascismo
Cento anni fa la marcia su Roma: quando il Re Vittorio Emanuele ebbe paura di Mussolini
Piove. Diluvia su decine di migliaia di camicie nere che, male armate e senza viveri sguazzano nel fango a decine di km da Roma. La pioggia si abbatte su Perugia dove i quadrumviri che dovrebbero guidare la marcia fascista su Roma faticano anche solo a incontrarsi tra loro. Grandi e De Vecchi si decidono a raggiungere la città solo a tarda notte ma nel frattempo Italo Balbo è corso a Firenze dove l’insurrezione minaccia il capo dell’esercito Armando Diaz in persona. A Roma piove e fa freddo, tanto che nella sua stanza all’Hotel Londres il presidente del consiglio Facta si è addormentato coprendosi con i pantaloni e la giacca. Lo trovano così i sottosegretari Rossini e Beneduce quando alle 3 di notte si decidono a svegliarlo.
Nella ore precedenti il ministero degli Interni è stato bombardato da telefonate e telegrammi che registrano l’inizio dell’insurrezione in moltissime città: prefetture e uffici telegrafici occupati, concentramenti di fascisti armati, spesso casi di fraternizzazione tra insorti ed esercito. A Milano Cesare Rossi e Aldo Finzi si sono presentati minacciosi nelle redazioni dei maggiori giornali avvertendoli di non provare a ostacolare gli eventi. Qualcuno si piega, qualcuno no. Al Viminale solo il capo di gabinetto del ministro degli Interni Efrem Ferraris è rimasto di guardia ed è lui il primo a rendersi conto di quel che sta succedendo nel Paese: “Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato”.
Svegliato di soprassalto Facta si sposta al ministero della Guerra, convoca il generale Pugliese e poi, per le 5 al Viminale, il consiglio dei ministri. Sbotta in stretto dialetto piemontese: “Se a voelo avnì a devo portame via a toch”, se vogliono venire devono portarmi via a pezzi. Il parere del governo è unanime: fermare i fascisti alle porte di Roma non basta. Bisogna proclamare lo stato d’assedio. Anche Riccio, l’uomo di Salandra, è furibondo: «Mussolini si è fatto prendere la mano. Ci vuole lo stato d’assedio». Alla riunione presenzia anche l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele, il generale Cittadini e dice senza mezzi termini che il re vuole lo stato d’assedio. Dopo meno di un’ora di riunione, il Consiglio si pronuncia all’unanimità per proporre al re, a cui spetta l’ultima parola, la proclamazione dello stato d’assedio.
Il bando preparato da Pugliese vieta, a partire dalle 12, le riunioni pubbliche oltre cinque persone, revoca tutte le licenze di portare armi e stabilisce la chiusura di tutti i negozi di armi, proibisce la circolazione delle automobili private e dei mezzi pubblici, sospende tutti gli spettacoli, fissa per le 21 l’obbligo di chiusura per tutti i negozi. Alle 7.50 la notizia dello stato d’assedio da mezzogiorno viene comunicata a tutti i prefetti e comandanti militari. A Roma reparti dell’esercito presidiano i palazzi del potere circondati dai cavalli di frisia, le truppe bloccano ponti e punti d’accesso alla città. Il ministro ordina l’occupazione delle sedi fasciste e l’arresto dei capi del fascismo a Roma e chiede al prefetto Lusignoli di prepararsi a fare lo stesso a Milano. Alle 8, mentre vengono bloccate le linee ferroviarie intorno a Roma, sull’agenzia di stampa Stefani viene data la notizia dello stato d’assedio.
Mezz’ora dopo i muri di Roma sono tappezzati dai manifesti con il proclama mentre scattano la censura sul telegrafo e l’interruzione di tutte le linee telefoniche. Al re viene consigliato di spostarsi al più presto, per sicurezza, dalla residenza privata di Villa Savoia al meglio difeso Quirinale. La notizia battuta dall’agenzia Stefani precipita nel caos i quadrumviri che, senza telefoni, arroccati a Perugia da dove spostarsi in treno è quasi impossibile, non riescono a comunicare con le colonne che dovrebbero “scattare su Roma” e che, a loro volta, non riescono a mettersi in contatto tra loro. Flagellati dalla pioggia, senza ordini né coordinamento, affamati, i fascisti invece di marciare restano per ore bloccati a decine di km da una Roma irraggiungibile e presidiata dall’esercito.
Alle 9 però il re non ha ancora convocato Facta per firmare lo stato d’assedio. Il primo ministro si presenta senza invito a Villa Savoia, con la voluminosa busta gialla contenente il proclama sullo stato d’assedio. Il re non firma. Prima rimprovera a Facta la decisione di affiggere i manifesti prima del suo ordine, poi taglia corto: “Non firmo un decreto che non approvo”. Quindi licenzia Facta con un commiato che suona come una sentenza: “Occorre che uno di noi si sacrifichi”. Non c’è bisogno di specificare che il sacrificato sarà Facta, costretto alla più umiliante fra le retromarce. Alle 12 il ministro Taddei comunica a prefetti e comandanti che le disposizioni sullo stato d’assedio non devono più essere applicate. Poco dopo un secondo telegramma cancella l’ordine di arrestare i capi fascisti. Alle 13 l’agenzia Stefani annuncia il contrordine. Trafelati, gli uomini della polizia si affannano per strappare o coprire tutti i manifesti col proclama. La città, che si era svegliata in una situazione da guerra civile, festeggia. I fascisti sentono di avere la partita in mano e con i nazionalisti manifestano entusiasti di fronte al Quirinale.
Sul perché tra le 5 e le 9 del mattino del 28 ottobre il re abbia cambiato idea sullo stato d’assedio non vi è alcuna certezza ma solo ipotesi, ognuna parzialmente avvalorata dalle pochissime frasi che Vittorio Emanuele si lascerà sfuggire nei decenni successivi. Probabilmente alla scelta concorsero diverse ragioni. Il re lamenterà in seguito di essere stato “lasciato solo” da un governo che, dopo aver sottovalutato sino all’ultimo la minaccia, si presentava dimissionario. Certamente temeva la guerra civile, probabilmente sopravvalutando la forza della Milizia ma anche perché i comandanti della Marina Thaon di Revel e dell’esercito Armando Diaz erano stati tutt’altro che traquillizzanti: «L’esercito sarà fedele però sarebbe meglio non metterlo alla prova», aveva avvertito Diaz. Probabilmente il sovrano temeva che una crisi avrebbe potuto portare alla sua sostituzione con il cugino Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, sostenuto dai fascisti, e pesavano anche le simpatie per Mussolini della regina madre. Infine è certo che il re considerasse ancora possibile chiudere la crisi senza affidare l’incarico a Mussolini ma con quella partecipazione dei fascisti al governo alla quale puntavano da settimane tutti i leader liberali.
Proprio perché ancora non ritiene necessario nominare il duce presidente del consiglio il re, trasferitosi al Quirinale, avvia nella stessa mattinata le consultazioni. Così riparte il valzer delle trame. Facta esorta Giolitti a precipitarsi a Roma. L’anziano leader accampa un raffreddore, poi si convince ma le linee ferroviarie sono interrotte a causa del maltempo e deve rinunciare. Il re punta su Salandra, a cui assegnerà l’incarico alle 18. Convocato dall’aiutante di campo Cittadini a nome di Vittorio Emanuele, De Vecchi, con Grandi, riparte per Roma. Non prima di aver firmato con gli altri quadrumviri una solenne dichiarazione che non lascia alternative alla nomina del duce e che disattenderà appena rientrato nella capitale.
Al Quirinale De Vecchi viene ricevuto dal sovrano in persona che gli chiede se i fascisti sono pronti a sostenere il governo Salandra. Ma De Vecchi non può impegnarsi senza l’assenso di Mussolini e Mussolini, nonostante pressioni iniziate ancora prima che fosse cancellato lo stato d’assedio, non ha alcuna intenzione né di dare il via libera a Salandra né di farsi vedere a Roma, nonostante la richiesta dello stesso re. Prova a convincerlo Federzoni: il duce glissa. Ritenta il deputato nazionalista e futuro ministro della Giustizia Alfredo Rocco, che guida una delegazione di politici e industriali nella redazione del Popolo d’Italia: Mussolini risponde che “non è più tempo di governi Salandra o Orlando” e anzi consegna a Rocco la lista dei ministri che intende nominare nel suo governo, perché la notifichi a Roma. Torna alla carica nel pomeriggio Cittadini.
Il capo del fascismo rifiuta: “Non posso muovermi da Milano se non ho l’incarico ufficioso di formare il governo”. Insistono De Vecchi, Grandi e Ciano. Il capo li gela: «Non valeva la pena di fare una rivoluzione per una soluzione Salandra-Mussolini.» A tarda notte De Vecchi, Grandi e Ciano tentano l’ultima carta: un telegramma per dire che a volere il governo Salandra è il re. Mussolini risponde con un altro telegramma: «Fate pure. Io non parteciperò mai a un simile ministero. Mussolini».
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