Il progetto
Centro Direzionale micro Dubai, la politica dei rattoppi non è la soluzione

Kenzō Tange, l’architetto giapponese che negli anni Ottanta ha progettato il Centro direzionale di Napoli, è scomparso nel 2005, per sua fortuna, la morte gli ha evitato di provare l’amarezza dell’artista che assiste alla distruzione della sua opera, e non vedrà le sue ardite e avveniristiche costruzioni, concepite per rappresentare la modernità di una città europea, trasformate in vuoti e spenti presidi di una periferia degradata. Strana città questa nostra Napoli, dove tutte le buone intenzioni si trasformano in pessimi risultati.
È successo a Bagnoli, è successo al centro storico sito Unesco, è successo al Centro direzionale. Sulla carta grandi progetti e grandi potenzialità e poi c’è una forza conservatrice che porta alla stagnazione e all’inerzia, e non cambia nulla o addirittura peggiora. Kenzō Tange è considerato uno dei più alti rappresentanti dell’architettura del Novecento e alla costruzione del Centro direzionale hanno collaborato architetti di fama mondiale come Renzo Piano e Nicola Pagliara, eppure il risultato finale è pessimo: l’area che doveva diventare la City, il cuore moderno di una città ricostruita dopo la catastrofe del terremoto, non è mai decollata e vive solo per le attività intorno al Palazzo di Giustizia, a quello che resta degli uffici regionali e a poco altro. Il suo declino è apparso al presidente De Luca tanto irreversibile che ha pensato di “ricostruire” un nuovo centro da duecento metri dal vecchio.
Se avesse potuto farlo, avrebbe forse preferito, per “salernitane” ragioni estetiche, spianarlo e ricostruirlo, ma non si può fare e quindi ci si deve spostare di duecento metri. Pur nella sua assurdità, la proposta di De Luca ha avuto il merito di risvegliare l’attenzione della distratta classe dirigente napoletana sulla condizione di degrado del Centro direzionale. È probabile che senza la proposta di De Luca il Centro direzionale sarebbe rimasto l’ultimo dei pensieri dell’amministrazione comunale, come dimostra l’allocazione di fondi di bilancio destinati a quell’area. Il Vomero-centrismo, che accomuna questa amministrazione a quella precedente, dà una visione distorta e parziale della città, e si sa che visti dalla terrazza di San Martino i grattacieli di Kenzō Tange arricchiscono lo skyline partenopeo, donandogli quel tocco di contraddittoria modernità che piace tanto al turista “ferito a morte” dalle bellezze cittadine.
L’ameno quadro da cartolina è ben altra cosa se osservato a distanza ravvicinata, come ben sanno i cittadini che per lavoro o residenza devono confrontarsi ogni giorno con l’incubo urbanistico chiamato Centro direzionale. L’amministrazione comunale ha pensato di risolvere l’incombente conflitto con i disegni faraonici di De Luca (ai quali è stato dato il nome, piuttosto evocativo in questi tempi, di Porta Est), a suo modo, ricorrendo cioè alla neutrale e obiettiva sapienza di tecnici e accademici di fama internazionale. Nel “Fort Apache della modernità in mezzo al degrado”, cioè nella Facoltà di Ingegneria della Federico II a San Giovanni a Teduccio, si è svolto, qualche giorno fa, un workshop organizzato dal vicesindaco e assessore alla urbanistica, l’accademica Laura Lieto.
Ancora una volta, Napoli ha bisogno di una coscienza esterna per progettare il suo futuro, o forse più semplicemente per avere idee che la classe dirigente locale non è ancora in grado di elaborare. E quali idee sono emerse dal Brain Trust sul Centro direzionale? Sintetizziamole brevemente: il Centro direzionale muta la sua originaria natura di polo di servizi prevalentemente pubblici per assumere una destinazione urbanistica polifunzionale, una sorta di modello Dubai del Golfo partenopeo, cioè alberghi di lusso con vista panoramica (innanzitutto sull’orribile carcere di Poggioreale), ristoranti, parchi divertimenti, palestre, roof garden, piscine e ovviamente centri commerciali. Intanto volenterosi e ottimisti investitori privati si sono fatti avanti per acquistare le due torri gemelle Enel, con l’obiettivo di trasformarle in strutture ricettive, visto che Napoli appare ormai una consolidata meta turistica.
Certo non ci voleva un workshop internazionale per scoprire ciò che è ovvio: per evitare la desertificazione del centro direzionale occorre diversificare le attività. Ma agli illustri tecnici convenuti a “Fort Apache” per due giornate non sarà sfuggito che non basta rimuovere qualche sterpaglia e riavviare le scale mobili per rilanciare il Centro direzionale (e addirittura la rinascita avverrebbe entro dicembre prossimo), il vero problema è il contesto sociale e urbanistico in cui esso è inserito. La politica dei rattoppi non serve, occorrerebbe invece un piano generale di ristrutturazione edilizia del quartiere Vasto e una coraggiosa attività di contrasto della criminalità organizzata che gestisce le molteplici attività illegali intorno al Centro direzionale. Senza modificare il contesto, la micro Dubai che si vorrebbe creare, sarà presto risucchiata da quelle forze conservatrici che fino ad ora hanno impedito la modernizzazione della nostra città.
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