L’economia tedesca si è “inceppata” e, anche se non si preferisce dirlo ad alta voce, appare evidente a tutti gli analisti che Berlino è in recessione. L’ultima conferma arriva dall’andamento del prodotto interno lordo, reso noto martedì 30 luglio: il Pil tedesco è diminuito dello 0,1 per cento rispetto ai primi tre mesi del 2024 chiusi invece con più 0,2 per cento. Questo valore arriva dopo un 2023 molto deludente che ha segnato meno 0,3 per cento. Tutto ciò accade mentre il resto d’Europa registra timidi segnali di crescita: l’Italia segna un più 0,2 per cento, la Francia più 0,3 per cento e la Spagna più 0,8 per cento. La media europea si attesta a più 0,3 per cento. Dunque Berlino ha un problema. E abbastanza grosso. Diversi sono i motivi alla base della crisi che riguarda la Germania e il suo sistema industriale. Ci sono ragioni di natura contingente e altre strutturali.

Il miracolo del lavoro

Guidata da Angela Merkel per ben sedici anni, fino allo scoppio della pandemia da Covid la Germania è riuscita a imporsi a livello globale sia da un punto di vista geopolitico che economico. In questo secondo ambito, “Frau” Angela ha compiuto un vero e proprio capolavoro. Da un lato ha consolidato le riforme del lavoro del suo predecessore, Gerhard Schröder, consentendo alla produttività del sistema tedesco di raggiungere vette mai viste prima. Tanto è vero che gli esperti considerano il decennio 2010-2020 come quello del “The German Job Wunder”, il miracolo dell’occupazione tedesca. Dall’altro lato è riuscita ad ottenere gas e petrolio russo a prezzo di saldo per “nutrire” l’industria pesante della Germania e ha trovato nella Cina un ottimo partner con cui creare collaborazioni strategiche. Tanto è vero che Berlino è il primo esportatore europeo verso la Cina. Il capolavoro, con il tempo, si è dimostrato però una prigione. La crisi dei consumi cinesi dovuti alla pandemia e allo scoppio della bolla immobiliare hanno creato enormi difficoltà per l’export tedesco. La guerra russo – ucraina ha fatto perdere alla Germania il primo fornire di gas a costo ridotto. Questi due elementi rientrano nei motivi contingenti.

Digitalizzazione

L’industria tedesca, però, da anni soffre di un problema di natura strutturale. Per cogliere il primo segnale, bisogna risalire al 2015 quando la produzione industriale tedesca crollò dell’8 per cento mentre il resto d’Europa cresceva. Non solo, nello stesso periodo il direttore generale di Thyssen-Krupp, gruppo leader nella produzione dell’acciaio, annunciava un taglio della produzione del 40 per cento. E come tutti sanno, l’acciaio è alla base della filiera industriale. Insomma, il mondo industriale stava cambiando ma a Berlino pochi se ne sono accorti. Ecco perché il conflitto russo – ucraino e il covid sono solo le cause che hanno fatto esplodere una crisi latente nel sistema tedesco. Per anni il modello industriale di Berlino si è basato sull’industria pesante, sulla produzione di auto a combustione e l’export collegato in tutto il mondo. Le case automobilistiche tedesche macinavano profitti grazie alle vendite e alle assistenze post vendita. Poi è successo una cosa che nessuno poteva immaginare: il “diesel gate” nel 2018. In pratica, i produttori di auto tedesche avevano “truccato” i dati delle emissioni rendendo noti numeri falsi. L’anno successivo la produzione di auto è crollata del 5 per cento. Si aggiunga a ciò il fatto che il modello attuale del business automotive è basato su software e batterie le cui filiere sono dominate da Cina e Stati Uniti. Industria pesante, mancanza di innovazione, scelte geopolitiche: ecco il mix che spiega il declino strutturale della Germania. Aggiungiamo un altro elemento. La Germania è guidata da un governo eterogeneo che va dai liberali ai verdi ai socialdemocratici. Un Esecutivo ideologizzato che non riesce a prendere decisioni nette e chiare per superare l’impasse in cui si trova il Paese.

E l’Italia?

Negli ultimi anni le economie italiane e tedesche sono meno “sincronizzate”, cioè l’interconnessione commerciale e industriale è molto diminuita dalla pandemia ad oggi. Come spiega un report di Confindustria, fino al 2019 l’indice di sincronizzazione tra Germania e Italia era dello 0,6 per cento; ad oggi esso è calato allo 0,25 per cento. Questo indice, invece, è cresciuto tra Italia, Spagna e Francia. La crisi tedesca, dunque, si rifletterà in Italia soprattutto nella produzione dei beni intermedi, cioè quei beni che le industrie germaniche usano per i loro prodotti finiti ma molto meno che nel passato. Anche l’export italiano verso la Germania si è ridotto riequilibrandosi verso gli Stati Uniti. Pertanto, la crisi tedesca fa male a tutta l’eurozona visto che la Germania rappresenta ancora il 25 per cento del pil dell’Unione ma il suo impatto nei confronti dell’Italia e del resto d’Europa sarà meno forte. Resta solo una domanda: cosa farà l’Unione Europea per evitare il declino definitivo dell’industria del vecchio Continente?

Angelo Vaccariello

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