Del settore automotive si è occupato a lungo Cesare Damiano, per trent’anni dirigente sindacale Fiom, quindi parlamentare e Ministro del Lavoro nel governo di Romano Prodi, è oggi presidente del centro studi Lavoro & Welfare.

La crisi dell’automotive oggi a un nuovo acme, con le dimissioni di Tavares.
«La reazione corale alle sue dimissioni è di soddisfazione. “Meno male che se ne è andato”, si dice. Non so se basta per tirare un sospiro di sollievo, ma deve far capire tutti che gli errori ci sono stati e che ora voltare pagina non sarà facile. Anche se è urgente».

Non sarà mica stata tutta colpa di Tavares, se non si vendono più macchine.
«Infatti. E sono preoccupato per quello che succederà adesso. La crisi era annunciata da tempo e adesso la crisi della manifattura può trascinare con sé, in una estesa crisi di sistema, tutto l’indotto. Parliamo di centinaia e centinaia di migliaia di persone in Italia. E poi non c’è solo l’Italia».

Nel nostro Paese lo spostamento di lavoratori dalle fabbriche automobilistiche ad altri settori era già avvenuto, in buona parte.
«Con Lavoro&Welfare abbiamo mappato questa dinamica. Le ore lavorate dal 2008 al 2023 sono – 19% nel settore manifatturiero e + 6% nel settore dei servizi, nel turismo e nella logistica. Dove spesso sono gli stessi operai a reimpiegarsi. Lo spostamento è strutturale, non avrà ritorno. Il che conferma una crisi di settore, uno svuotamento oggettivo dell’automobile».

C’è stata una trasformazione epocale, in quest’ambito…
«Come lei sa mi sono occupato negli anni Settanta della Fiom. Vengo da quel mondo, sono stato trent’anni dirigente dei Metalmeccanici della Cgil. A Torino avevamo 60.000 dipendenti, alla Mirafiori. Poi c’erano Chivasso, Rivalta e il Lingotto che cubavano altri 40.000 dipendenti. Centomila lavoratori che si occupavano di produzione diretta di autoveicoli, solo nel torinese. Oggi Mirafiori è svuotata. E chi rimane, forse 10.000, lo fa grazie alla cassa integrazione. Sono in crisi Melfi e tutti gli altri».

Perché non si riesce più a essere competitivi?
«La scelta di Tavares ha contribuito, accanto agli errori di strategia del gruppo dirigente di Stellantis. Hanno una vocazione più finanziaria che industriale, e questo ha un suo peso. Non si pensa al prodotto da vendere ma al modello di business. E poi la scelta scellerata di andare sull’auto elettrica. Di puntare tutto su auto più costose e meno accessibili di cui non si capisce dove e come possono essere ricaricate, se le colonnine rimangono così poche anche nelle grandi città».

Così vincono altri produttori…
«Esatto, quello che sta succedendo. Vincono quelli che hanno l’ibrido oppure il capitalismo di Stato cinese, più avanzato e al tempo stesso più economico. Dobbiamo fare un ragionamento: l’Europa per vincere nella competizione globale stando alla testa dell’innovazione – l’IA, la digitalizzazione dei processi produttivi – o decide accanto alle sue scelte di mettere una scelta mancante, o muore. Non c’è traccia di politica industriale e questo affonda il settore, e con il settore, i sistemi-Paese che le sostengono. La crisi di Volkswagen porta alla crisi di Tyssenkrupp. Siamo in una manovra finanziaria dove il fondo a sostegno dell’automotive è stato diminuito. Dov’è la lungimiranza di un governo che non comprende le difficoltà del momento che stiamo attraversando?»

Teme una ricaduta forte sulla manodopera impiegata?
«Una crisi violenta sulla produzione diretta, sull’indotto, sulle filiere, sui fornitori. E sull’acciaio, per esempio. Come in Germania».

Quali possono essere le soluzioni?
«È sempre più urgente che Elkann, abbassando un po’ le penne rispetto agli atteggiamenti un po’ spocchiosi del recente passato rispetto a governo e parti sociali, venga anche in Parlamento a parlare dello stato della crisi. Si compiano scelte di maggior equilibrio nel rapporto tra elettrico ed endotermico e si sciolga il ruolo degli stabilimenti italiani. (E scandisce: i-ta-lia-ni)».

Perché sottolinea italiani?
«Perché un’eccellenza italiana come l’Ape Piaggio la costruiamo in India. Allora dico: quando è che finirà questa storia del decentramento del manifatturiero italiano in Cina e in India? Vogliamo la desertificazione industriale completa senza aver ancora messo le mani sull’Intelligenza artificiale e sulla robotica? Così condanniamo il presente e il futuro insieme».

Le stesse cose le dice Trump, in America. Vietato delocalizzare.
«Trump ha torto sui dazi, ma il principio che ciascuno dovrebbe poter difendere la propria ricchezza industriale, senza regalare le proprie eccellenze all’estero, mi sembra pacifico e condivisibile».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.