Dopo il 2016, anno dell’elezione di Donald Trump a Presidente degli Usa, non passa occasione elettorale senza che sui media tradizionali e non si scateni una fervida polemica circa i rischi dell’uso della tecnologia digitale a fini politici. I principali indiziati? Fake news e chatbot, oltre, genericamente, ai social network. Il tema non è banale: la rivoluzione digitale ha archiviato numerosi schemi consolidati, anche in comunicazione e politica, con conseguenze non sempre prevedibili e feconde. Per “chatbot” si intendono software di intelligenza artificiale capaci di conversare come un essere umano. Questi software sono, oggi, così perfezionati da risultare spesso indistinguibili, per l’utente medio, da un interlocutore in carne ed ossa. Non è fantascienza, ad oggi i chatbot gestiscono, ad esempio, moltissime sezioni di chat/helpdesk di siti web aziendali, sostituendo operatori umani.
Fin qui, nulla di male. Le cose, tuttavia, cambiano quando simili strumenti vengano utilizzati per impersonare account reali nei social network, al fine di condizionare una campagna elettorale.
Infatti, un unico portatore di interessi, con adeguati mezzi, può generare una grandissima quantità di chatbot e utilizzarle per diffondere in modo capillare, ma centralizzato e occulto, contenuti a lui favorevoli. Chatbot che si fingono persone possono, infatti, da un lato postare, o twittare, in prima persona e dall’altro partecipare a discussioni sviluppatesi attorno a post o tweet altrui per distorcere il dibattito da essi generato semplicemente facendo sembrare che “tante persone” la pensino in un certo modo. Le tattiche utilizzate sono di vario genere e sfruttano meccanismi psicologici inconsci degli utenti. Si sfruttano, ad esempio, la fiducia che istintivamente accordiamo ai nostri contatti social (in quanto percepiti come “persone normali”, vicine a noi), l’effetto eco-chamber e l’innata preferenza per i contenuti che confermano le nostre convinzioni.
Nell’ambito, ad esempio, di una campagna elettorale, un plotone di chatbot può essere utilizzato per diffondere l’idea, tra gli utenti reali, che un certo candidato goda di ben più sostegno di quanto non sia in realtà. Più semplicemente, in altri casi, si possono usare le chatbot per diffondere false notizie volte a creare confusione negli elettori rendendoli meno recettive agli stimoli informativi autentici. Ora, l’evidenza del fatto che un uso malevolo di tecnologie così sofisticate possa generare conseguenze dannose di portata anche enorme è indiscutibile. Ma quello che è veramente interessante domandarsi è se, e in che modo, questi strumenti possano costituire nuove minacce per l’ordine democratico. Volendo, infatti, ridurre all’osso la tesi del j’accuse! rivolto a queste tecnologie, viste come paletti di frassino puntati sulla nostra non-morta democrazia, l’idea è che grazie ad esse qualcuno possa orientare indebitamente pacchetti di voti altrui, alterando così la spontanea e naturale formazione della volontà collettiva che legittima, attraverso i passaggi elettorali, il potere negli Stati democratici.
Detta così, ricorda qualcosa? Quanto descritto non somiglia spaventosamente al fenomeno, ben noto ed analizzato sia mediaticamente che scientificamente, dell’influenza del denaro sulla reale rappresentatività degli organi politici ed istituzionali? Costituisce davvero una novità che chi disponga di mezzi adeguati possa orientare in modo interessato e “spontaneo” i flussi di consenso dell’opinione pubblica? No. Tra comprare un voto e assicurarselo manipolando psicologicamente l’elettore, non cambia molto da un punto di vista degli effetti distorsivi per la reale rappresentatività del corpo politico. La vera novità, semmai, è che i costi (relativamente) contenuti dell’hardware, del software e del know how necessari ad avviare una strategia di manipolazione su larga scala mediante queste tecnologie, rendono competitivi nuovi soggetti, che prima erano irrimediabilmente esclusi dalla competizione per il consenso locale, regionale e globale.
Chiariamo: non che questi ultimi siano vittime o campioni di purezza. Lungi poi da chi scrive la retorica complottistica che, come tutti gli “-ismi”, non è altro che una semplificazione della realtà, utile solo a confortare chi la professa.
D’altro canto, avvitandoci tutti nella spirale dell’ennesimo capitolo dell’eterna, fittizia, lotta del bene contro il male nella quale, questa volta, a sfidarsi sarebbero il potere consolidato (fondato sul denaro) ed i poteri emergenti (fondati sulla tecnologia… e sul denaro), perdiamo di vista il vero punto della questione. Il punto siamo noi stessi, come individui e nelle nostre proiezioni sociali. Non dovremmo cioè spendere una caloria, né un secondo del nostro tempo, per combattere battaglie altrui i cui dividendi, peraltro, non verranno mai condivisi, qualunque sia l’esito. Il problema del cittadino, cioè, non è se il voto venga distorto mediante la banconota o la chatbot. Peraltro, non è certo manifestando tendenze neoluddiste e rifiutando la tecnologia che si possano risolvere le contraddizioni tra quest’ultima e le istanze legittime che, a volte, ne risultano minacciate.
Il problema del cittadino è non essere condizionato occultamente fino al punto di diventare strumento passivo di chiunque detenga i mezzi idonei a realizzare strategie manipolative di così pervasiva efficacia, qualunque forma esse assumano. In definitiva, il problema di ognuno di noi è presidiare le prerogative che, di noi, fanno persone, tra le quali i diritti (individuali e collettivi), ma non solo. Abbiamo il diritto-dovere di riflettere circa le vie migliori per assicurarci di scongiurare scenari futuri dominati dall’omologazione, dal momento che sono proprio le relazioni tra individualità differenti ad alimentare la dialettica evolutiva che, dal primo amminoacido, ha portato la vita verso le forme più complesse di intelligenza, superandosi sempre in fatto di autocoscienza e capacità di interagire con l’ambiente.
Più concretamente, dunque, è necessario spostare il focus del nostro interesse da questioni solo apparentemente centrali, a questioni di maggior sostanza. La democrazia come modello di distribuzione del potere è palesemente in crisi. Le istanze che maggiormente caratterizzano il contesto sociale non trovano riconoscimento nelle istituzioni, pur formalmente rappresentative, che perdono quindi legittimità. Attori diversi, i cui scopi non sono necessariamente compatibili con quelli della collettività di riferimento, come le organizzazioni private (soprattutto nel settore della finanza e dell’ICT, ma anche le cosiddette Over The Top), acquisiscono sempre maggior potere nel condizionare scelte che, giorno per giorno, incidono in modo profondo sul nostro presente e sulle prospettive future.
Occorre comprendere come sviluppare modelli nuovi, nei quali le scelte più rilevanti possano essere prese da qualcuno che non sia legittimato a perseguire interessi diversi da quelli espressi dalla volontà collettiva. Modelli in cui l’individuo sia riconosciuto ma non esaltato, poiché da soli non siamo nulla. Modelli politici nuovi, adatti al contesto sociale, tecnologico, culturale contemporaneo, che permettano di attribuire la responsabilità politica a chi realmente opera le scelte e ne deve sopportare le conseguenze. Serve, in definitiva, più politica e meno retorica. È urgente e necessario far riemergere il sano confronto tra interessi e valori relativi, dopo anni di ebbrezza de-politicizzante, causata dall’illusione della “fine della storia”, dell’assolutizzazione dei principi e dell’unilateralità politica e culturale globale post caduta del muro di Berlino, del tutto smentita dalla realtà degli ultimi vent’anni. Il problema sul quale dibattere e scaldarsi, la minaccia cioè da scongiurare, non è costituito dalle chatbot, ma dal nostro scarso grado di consapevolezza e di assunzione di responsabilità collettiva. Riflettiamoci e agiamo.