Il saggio di Franco Brevini
Che bello quando c’erano gli intellettuali…

Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? Sì e no. Non abbiamo bisogno di una casta separata, che si arroga il diritto di sentenziare e “legiferare” dall’alto sulle nostre esistenze, ma abbiamo disperatamente bisogno di orientarci tra i saperi sempre più specialistici della contemporaneità per poterla “interpretare”, e non possiamo farlo da soli (Bauman segnalava il passaggio epocale degli intellettuali da legislatori a interpreti). Perciò abbiamo umilmente bisogno di maestri: dobbiamo noi cercarli e sceglierli, sapendo che i veri maestri non si pongono mai come tali. Ma su questo tornerò nelle conclusioni.
Franco Brevini affronta la questione in un denso saggio (Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? Raffaello Cortina editore), ripassando utilmente il dibattito degli ultimi decenni e ricostruendo la genesi storica di alcuni nodi decisivi. Secondo Brevini, uno studioso di letteratura italiana dotato di immaginazione sociologica e capace di riflettere sulla attuale crisi di civiltà, la madre di tutte le contraddizioni è l’idea perversa di “democrazia epistemica”, la confusione tra diritti e competenze. Il metodo democratico non funziona nelle cose della cultura e della scienza: la validità di una teoria scientifica non dipende dal criterio della maggioranza (come sapeva Galileo) né la velocità della luce si decide per alzata di mano. “Uno vale uno” non è più vero se qualcuno ha studiato e sgobbato più di noi per approfondire un argomento. Proprio quella idea perversa (Grillo nel 2011: “l’inesperienza è il valore aggiunto”) ha portato nel giro di pochi anni a una squalificazione sistematica di qualsiasi autorità (anzitutto culturale, poi morale, politica, etc.), dove “autorità” (auctoritas) non è uguale a “potere” (potestas), non si impone a nessuno.
Da qui discende la rivolta contro le élite, la illusione della conoscenza (già navigare in Rete sembra rafforzi l’autostima cognitiva) che si sostituisce alla conoscenza (fatta di paziente apprendistato). Ed è una storia di idee giuste però andate a male. Con Petrarca si afferma il primato dell’io individuale, che poi si traduce nell’individuo attuale, compulsivamente rivendicazionista, titolare di diritti appunto individuali, senza più i doveri corrispettivi. La celebrazione rousseauiana della spontaneità e delle emozioni, di ciò che è istintivo e immediato, diventa assenza di forma, sbracamento, esibizione sfrontata di qualsiasi emozione, stile sciatto e irrispettoso (inoltre: in un contesto dominato da rancore, paura e scontento prevarrà l’appello demagogico su ogni raziocinio). L’amore di sé, quasi un’eresia che ha attraversato i secoli, diventa narcisismo dei selfie, tipico di un soggetto sempre più incerto, fluttuante, disturbato, che cerca prove fotografiche, inoppugnabili, della sua stessa esistenza (un risarcimento contro la distrazione mostrata nei suoi confronti dalla società). L’utopia sessantottina del “vogliamo tutto” si riduce a considerare ogni autorità come limitazione e prevaricazione, alla pretesa di una garanzia del successo dei singoli (“la cima è un diritto, e se qualcuno non ce la fa, il problema non è suo ma della società”: tutti si sentono vittime di un’ingiustizia).
Inoltre: quanto più disconosciamo ogni autorità tanto più ci ritroviamo in ostaggio di più temibili autorità occulte (power élite), di aziende che sono in grado di localizzare dove ci troviamo e sulla base dei profili risultanti dalle nostre precedenti navigazioni ci inviano i messaggi pubblicitari ad personam. Tutto questo porta secondo la diagnosi di Brevini al trionfo dei più numerosi sui migliori. Dissento invece dall’autore quando riprende acriticamente una celebre citazione di Croce sul fatto che se ti devi operare richiedi un chirurgo, onesto o disonesto che sia, abile nel suo mestiere, e così si chiedono non uomini politici ma onesti uomini, etc. Ora, a parte il fatto che io da un chirurgo abilissimo ma disonesto non mi farei operare (sospetto che per guadagnarci di più si inventerebbe inutili complicazioni, potrebbe fare apposta un errore che dopo solo lui riuscirebbe a riparare, etc.), ma specie un uomo politico, un civil servant preposto al bene della polis, non può essere un manager capace ma incline alla disonestà (si rilegga il “realista” Guicciardini in proposito).
Infine: l’ultimo capitolo sui possibili “anticorpi” mi sembra un po’ sbrigativo e pieno di nobili ovvietà (“tornare a puntare sull’etica…”). Oggi è più interessante indagare e tentare di “mappare” quelle esperienze, entro la società civile, nelle quali l’etica viene vissuta concretamente, si trova quasi ad essere collaudata dentro il comportamento individuale e collettivo: forme di autogoverno e di cooperazione, pratiche degli obiettivi, utopie minimaliste, momenti di cittadinanza attiva, etc. Non abbiamo bisogno di intellettuali nel senso tradizionale di maitre à penser o direttori di coscienze, né rimpiangiamo l’intellettuale engagés di una volta, con il suo status, i suoi privilegi intoccabili, la sua rendita di posizione assicurata per tutta la vita. Abbiamo però bisogno di un pensiero critico, indocile, dissidente, benché riformulato in modi nuovi e oggi disperso nella folla. Non ci manca tanto il “ruolo” quanto la “funzione” intellettuale – l’attitudine dubitativa, tenacemente riflessiva, interrogante – che in quanto tale si trova socraticamente in ogni persona, specie in una società scolarizzata dove chiunque in Rete può pervenire a una qualche verità incrociando le fonti.
In ultima istanza l’unica autorità che andrebbe rivendicata è quella della argomentazione e di un sapere anche specialistico, seriamente fondato e al tempo stesso trasparente, comunicabile a ciascuno (sapendo che non tutte le teorie si equivalgono, come invece pensava Protagora). L’ultima parola spetta al cittadino responsabile, consapevole, che si informa e argomenta, che tenta di orientarsi nella Babele dei linguaggi e delle discipline. Oggi accanto e contro i processi di omologazione si intravedono nella società segnali importanti di risveglio della funzione intellettuale: dentro la intellettualità diffusa e precaria del nostro tempo – l’intelletto “collettivo” di Averroè, quello “generale” di Marx – affiora una intelligenza eretica, non conformista. Nel De monarchia Dante indica, aristotelicamente, come “fine dell’intera società umana” la “potenza intellettiva”, ovvero l’attuazione” della intera potenza dell’intelletto possibile”.
© Riproduzione riservata