Ha rischiato di essere squalificato ma alla fine ce l’ha fatta: la squadra olimpica dei rifugiati, alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Tokyo 2020, ha sfilato con la bandiera olimpica dopo la Grecia. È arrivato alla spicciolata, a gruppi, e poco alla volta in Giappone il Refugee Team. Un gruppo era rimasto bloccato sulla rotta Qatar-Giappone: bloccato a Doha per quasi una settimana a causa di un contagiato al coronavirus emerso nel gruppo degli accompagnatori. I primi atleti sono arrivati venerdì 19 luglio, all’aeroporto di Narita.

Il Refugee Team è composto in tutto da 29 atleti, 11 donne e 18 uomini, 16 allenatori e 10 accompagnatori. Il suo acronimo è EOR, che sta per Equipe Olympique des Réfugiés, e tutti gli atleti gareggiano grazie a una borsa di studio del CIO, da 11 Stati di origine e 13 stati ospitanti – ovvero i Paesi dove hanno ottenuto lo status di rifugiato. Alle premiazioni suona l’inno delle Olimpiadi. La squadra ha debuttato per la prima volta alle Olimpiadi del 2016. “Questa partecipazione rappresenta una pietra miliare nella collaborazione ventennale dell’UNHCR con il Comitato Olimpico Internazionale (COI) – aveva osservato, come si legge sul sito, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – un rapporto determinante nella promozione del ruolo dello sport nello sviluppo e benessere dei rifugiati, in particolare dei bambini, in tutto il mondo. Attraverso progetti congiunti, abbiamo promosso programmi giovanili e attività sportive in almeno 20 paesi, riabilitato campi sportivi in diversi campi rifugiati, e fornito kit sportivi per giovani rifugiati”.

A competere per la prima volta con Refugees Team in Brasile erano stati due nuotatori siriani, due judoka della Repubblica Democratica del Congo, e sei corridori da Etiopia e Sud Sudan. L’imprevisto di Doha ha messo in seria difficoltà la delegazione, in costante contatto con Tokyo. In Qatar la squadra si era fermata per un’ultima sessione di allenamenti negli impianti dell’Aspire Zone. A risultare positiva, secondo Repubblica, era stata l’ex mezzofondista keniota Tegla Loroupe, a capo della missione, che aveva ricevuto una sola dose di vaccino, e in attesa della somministrazione di richiamo. Gli atleti sono stati costretti all’isolamento per cinque giorni e a test quotidiani. Potevano allontanarsi dalla struttura solo per gli allenamenti.

Il Refugee Team compete in 12 sport in tutto: judo, taekwondo, karate, boxe, wrestling, ciclismo, nuoto, badminton, atletica, sollevamento pesi, tiro a segno, canottaggio. Ne fanno parte sei atleti che hanno già partecipato a un’Olimpiade, a Rio nel 2016: la nuotatrice Yusra Mardini (Siria) – ambasciatrice dell’Alto commissariato per i rifugiati, il judoka Popole Milsenga (Congo) e, nell’atletica leggera, i quattro sudsudanesi Anjelina Nadai, James Nyang Chiengjiek, Paulo Amotun Lokoro e Rose Nathike Lokonyen. A febbraio si è aggiunta al team la medagliata Kimia Alizadeh, iraniana, bronzo nel taekwondo (categoria inferiore ai 57 kg) a Rio. L’anno scorso è fuggita in Germania dopo aver rivendicato di essere “una delle milioni di donne oppresse in Iran”. Lo scorso febbraio le è stato riconosciuto lo status di rifugiata. Luna Solomon, eritrea, qualificata per il Tiro a Segno, è allenata dal plurimedagliato italiano Niccolò Campriani, tre ori e un argento tra Londra e Rio.

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Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.