Un soggetto è totalmente scomparso durante la pandemia: il sindacato. Dove è finito? In questo momento si parla molto di crisi della politica, tanto che il Governo Draghi è visto come una fase di tregua utile ai partiti per ridefinirsi. In realtà, prima ancora che i partiti appaiono in crisi tutti i grandi gruppi intermedi e, tra questi, innanzitutto i sindacati. Forse perché, da un lato, vivono una crisi non nata con la pandemia, ma molto più antica, e, dall’altro, la loro crisi interessa una parte sempre più ridotta della collettività.

La crisi è iniziata negli anni 80. In quegli anni il sindacato, nella componente non solo maggioritaria, ma anche più agguerrita ed intransigente, e cioè la parte della Cgil che faceva riferimento al Pci, subì due sconfitte cocenti: prima, nel 1980, la riapertura dei cancelli della Fiat, a seguito della marcia “dei quarantamila” quadri a Torino, e successivamente, nel 1985, l’esito del referendum sulla abolizione della scala mobile. In tutti e due i casi, la sconfitta sottolineò la distanza che si andava allargando con la società, nel suo complesso. Proprio in quegli anni, difatti, si verificava, anche in Italia, il fenomeno, che aveva già segnato le economie più avanzate, della crescita dei servizi in misura tale da sopravanzare la produzione dei beni. Anche la società italiana diventava, dunque, postindustriale.

Si è trattato di una rivoluzione silenziosa, che ha completamente stravolto le relazioni di lavoro. Il sindacato, restato ancorato allo schema dei rapporti di fabbrica, ha iniziato, in quel momento, a distaccarsi da una parte sempre più larga del mondo produttivo, quello dei servizi, creando le premesse per divenire progressivamente il sindacato degli operai andati in pensione. E, difatti, l’ultima imponente manifestazione sindacale fu quella, organizzata da Cofferati nel 1994, contro la riforma Berlusconi delle pensioni. Che, dopo alcuni anni, sono state colpite ben più duramente, senza alcuna significativa protesta.

Nel frattempo, si sono verificati altri due fenomeni imponenti, che hanno ulteriormente rivoluzionato il mondo del lavoro: la globalizzazione e l’avvento di Internet. Il primo fenomeno ha, tra l’altro, avuto l’effetto di accentuare il fenomeno dello spostamento in paesi lontani dall’Italia della produzione di beni. Per le poche fabbriche restate in Italia, poi, la proprietà è in molti casi passata a gruppi esteri, come tali insensibili agli effetti in Italia di una lotta sindacale anche dura. Il secondo ha, a sua volta, avuto una duplice conseguenza. In primo luogo, ha consentito la delocalizzazione anche dei servizi, e non solo di quelli di contenuto elementare.

Si pensi, da un lato, ai call center, e, dall’altro, alla contabilità che molte multinazionali affidano a centri di elaborazione collocati in paesi asiatici come le Filippine. Inoltre, ha consentito la creazione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro: si pensi allo smart working o al platform working, di cui tanto si parla in questi giorni, a proposito dei rider. Modelli tutti caratterizzati dal fatto di disarticolare la comunità dei lavoratori che si riuniva nel luogo fisico della fabbrica o dell’ufficio. Ebbene, di fronte a questi fenomeni, che hanno mutato definitivamente il volto della società, il sindacato è restato a piantonare, almeno in Italia, un orticello divenuto sempre più ridotto, quello della fabbrica, tentando, al più, di far applicare a queste nuove forme di lavoro lo schema di rapporto di lavoro, che nel secolo scorso era stato elaborato con riguardo all’operaio in fabbrica, e perciò palesemente inadeguato.

Il risultato di tale evoluzione (anzi, di tale mancata evoluzione) del sindacato si è potuto misurare in questi mesi di pandemia: il sindacato è stato del tutto assente. Se ne è avvertita la presenza per il rinnovo del contratto degli statali, che ha registrato aumenti per una delle poche categorie protette e mentre una parte molto rilevante del mondo produttivo sprofondava nell’indigenza, e per le proteste dei sindacati degli insegnanti, quando il nuovo Presidente del Consiglio ha ipotizzato di estendere di 15 giorni l’anno scolastico, in considerazione dei molti mesi di chiusura forzata delle scuole. Nel frattempo, la cassa integrazione ha funzionato male e con ritardo, i posti di lavoro persi sono già centinaia di migliaia, la condizione dei giovani e delle donne è precipitata.

E il sindacato? Proteste per il cattivo funzionamento degli ammortizzatori sociali? Nessuna. Quali le sue proposte, oltre ad una richiesta del blocco dei licenziamenti che non può durare all’infinito? In questo quadro, l’iniziativa del Ministro Orlando di voler subito incontrare i sindacati, addirittura prima ancora che le Camere dessero la fiducia al Governo, appare più come il patetico tentativo di piantare delle bandierine che come una seria manifestazione della volontà di risolvere i problemi del presente, avendo la capacità di guardare al futuro.

In questo momento il lavoro è in una condizione di fragilità, ed avrebbe bisogno di una rappresentanza forte e capace di interpretare il nuovo che si è ormai radicato stabilmente nella società. Spesso, oggi, è proprio il lavoro estraneo al mondo sindacale, e cioè quello fuori dalle fabbriche e fuori dalle amministrazioni pubbliche, in una condizione di maggiore debolezza. Si deve aggiungere che le nuove tecnologie, consentendo il lavoro a distanza con orari più elastici, hanno reso meno netta la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Quest’ultimo, per di più, è spesso divenuto sinonimo di precariato. È di fronte a questa realtà complessiva che il sindacato deve ridefinire il proprio ruolo ed i propri obiettivi. Se non ci riesce, restando ancorato agli schemi del Novecento, è destinato ad una definitiva marginalizzazione. Ed il mondo del lavoro è destinato a restare senza presidi.