L'agguato al convoglio Onu
Chi c’è dietro l’attacco in Congo: dai ribelli ruandesi ai jihadisti, l’ex colonia belga è una polveriera
Un Paese che nell’ultimo secolo di storia non ha mai conosciuto una pace stabile, condizionato non solo da guerre sanguinarie e violente, ma anche da carestie e pandemie. È questo il Congo, l’ex colonia belga nel centro dell’Africa dove questa mattina sono stati uccisi l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci.
I due sono sono morti in un agguato messo avvenuto intorno alle 10 (le 9 italiane) presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nella parte orientale del Paese.
L’attacco era probabilmente un tentativo di rapire personale dell’Onu: nel convoglio formato da due veicoli del World Food Programme c’era anche il Capo Delegazione Ue, in totale sette persone. Una circostanza, quella del rapimento, che sarebbe confermata dal governo della Repubblica Democratica del Congo, che ha riferito come tre persone del convoglio del World Food Programme sono state rapite, con una quarta poi ritrovata dalle Forze armate del Paese.
Quello che ancora non è chiaro è di chi sia la mano dietro la morte dei due italiani e del loro autista, Mustapha Milambo.
L’ipotesi prevalente, avanzata in particolare dai media locali congolesi, resta quella che l’azione sia responsabilità del gruppo ribelle armato ‘Forze democratiche per la liberazione del Ruanda‘. Ipotesi ovviamene al vaglio della Procura di Roma che ha aperto un fascicolo di indagine per sequestro di persona con finalità di terrorismo.
Il Fdlr-Foca, come è noto il principale gruppo residuo di ribelli ruandesi, è conosciuto a livello globale per il genocidio in Ruanda: i ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda sono infatti quasi quasi interamente da Hutu, che si oppongono ai Tutsi. Secondo gli Stati Uniti, il gruppo è responsabile di una dozzina di attentati terroristici realizzati nel 2009.
Ma nella zona dove è avvenuto l’attacco, il North Kivu, regione al confine con il Ruanda, trovano rifugio altri gruppi para-militari. Nell’area ha trovato rifugio il gruppo armato ugandese di ispirazione salafita dell’Adf, Allied Democratic Forces, un gruppo jihadista ugandese responsabile di numeri massacri nella regione e che ha come obiettivo quello di trasformare l’Uganda in una Repubblica islamica. La presenza islamica nella regione sarebbe confermata anche dalla rivendicazione da parte del Daesh di un attacco ad una postazione militare, la caserma di Kamango, avvenuto nell’aprile dello scorso anno.
Sulla sfondo restano poi gli interessi economici sull’area, con la competizione armata per il controllo e lo sfruttamento delle ricchezze del suolo e sottosuolo, tra minerali e materie prime preziose. La raccolta di oro e coltan, in mano spesso a gruppi criminali, permette a quest’ultimi di finanziare l’acquisto di armi per controllare il territorio, in un circolo vizioso. L’instabilità dell’area ha poi spinto diverse multinazionali, preoccupate per la sicurezza, a lasciare il Paese e la regione: gli ex lavoratori, trovatisi di punto in bianco senza occupazione, sono stati di fatto spinti ad unirsi ai gruppi armati per sostenere sé stessi e le proprie famiglie.
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