Tv, cinema, politica: vorrei fa' l'americano
Chi è Aaron Sorkin, lo sceneggiatore delle più belle serie tv statunitensi

Sapete chi è Aaron Sorkin? Non è solo uno sceneggiatore televisivo strapagato ma secondo me uno dei maggiori scrittori americani degli ultimi decenni: andrebbe messo idealmente tra Philip Roth e Don DeLillo. Provo a spiegarvi perché. Nella mia affannosa, disperata ricerca di una fiction tv da non abbandonare dopo le prime due puntate (bisogna pur fronteggiare la pandemia!) ho recuperato una serie vecchiotta ma eccelsa, che probabilmente molti di voi avranno visto vent’anni fa.
È la pluripremiata The West wing (da noi Tutti gli uomini del presidente), in onda dal 1996 al 2006, ambientata nella Sala Ovest della Casa Bianca, dove sono ubicati lo Studio Ovale e gli uffici dello staff presidenziale. Guardarla durante un periodo così concitato della vita politica americana – assalto al Campidoglio, insediamento problematico e quasi avventuroso di Biden – è particolarmente eccitante (ho sognato subito una puntata ideale che riguarda proprio questi eventi, anche per riuscire a capirli!). Negli Stati Uniti è stata accusata di partigianeria e ribattezzata The LeftWing, perché offre una immagine quasi utopica di un presidente democratico (il carismatico Martin Sheen), viscerale e open-minded, idealista e responsabile, umanissimo con i suoi collaboratori e tormentato da conflitti di coscienza. Eppure anche molti repubblicani lo hanno ammirato perché mette al primo posto la Costituzione e la legalità, perché è capace di fermezza e perché ha il culto della famiglia.
La contraddizione irrisolta di ogni politica affiora continuamente, quella tra etica dei principi ed etica della responsabilità. La mia puntata preferita: deve approvare una sentenza di condanna alla sedia elettrica, ma lui è contrario alla pena di morte. Telefona al papa (è cattolico), il suo portavoce si consulta con un capo rabbino, etc. Poi fanno un sondaggio da cui emerge che il 70% degli americani è favorevole alla pena di morte. In quel momento non può permettersi di essere impopolare. Decide allora di dare il beneplacito all’esecuzione, ma dopo chiama un sacerdote per confessarsi.
E qui vengo all’arte superiore di Sorkin, che ha scritto la serie nelle sue prime quattro stagioni: qualità letteraria, sapienza drammaturgica, ritmo narrativo strepitoso, racconto polifonico, capacità di incidere personaggi e destini memorabili, sottigliezza nel ritrarre psicologie. Ovviamente Sorkin non nasce dal nulla: dietro ci senti Hollywood al suo meglio, la tradizione della commedia (da tempo non vedevo dialoghi così frizzanti) e poi il grande cinema politico di denuncia. Senza trascurare la virtuosistica tecnica di ripresa walk and talk: i personaggi si mostrano senza stacchi di camera mentre percorrono i corridoi e discutono dei problemi che devono affrontare: mai visto attori di un film camminare così tanto! Oggi qualsiasi scrittore deve competere con autori come Sorkin, il quale ha candidamente affermato: «I miei obblighi non sono verso la verità… il mio obbligo sta nel catturare la vostra attenzione». Però cattura la nostra attenzione proprio rappresentando la verità dei conflitti e dilemmi del nostro tempo. In ciò sembra riannodare serialità e autorialità.
Vedendo la serie, e aspettando ansiosamente la puntata successiva, una domanda sorgeva spontanea. Perché in genere la politica mi annoia terribilmente – anche come teatro della eterna commedia umana lo trovo oggi mediocrissimo – e non guardo talk show da un anno, mentre mi appassiono a una serie incentrata sulla politica? Qui dobbiamo parlare delle differenze tra il nostro paese e gli Stati Uniti. Ricordate la serie 1993 ( e seguito: 1994), da una idea di Stefano Accorsi, intorno alla fine della Prima Repubblica e alla vicenda di Mani Pulite? Per carità, di ottima fattura, ma onestamente era difficile resistere fino all’ultima puntata. Perché? Perché sentiamo che la politica americana – per quanto in West Wing sia idealizzata e rappresentata perlopiù come spot promozionale dei Democrats – non prescinde mai dalla sfera morale.
In che senso? Non c’è azione politica del presidente che prescinda ogni volta da una scelta – drammatica, tormentata, stringente – tra bene e male. Negli Stati Uniti al bene e al male ci credono (si sa, per noi sono dei bambinoni)! Perciò producono da sempre una grande epica (western, Star wars, etc.). Gli italiani invece non ci credono, e dunque – fatalmente – producono commedia (per noi esistono quasi solo conflitti di interesse). Non voglio esprimere giudizi di valore. Credere fermamente al bene e al male in certi casi può essere pericoloso, come in politica estera, dove gli Stati Uniti sono convinti di incarnare il Bene e tendono a demonizzare l’avversario, radicalizzando ogni volta lo scenario (l’Impero del Male…).
E così non otterranno mai – per fare un esempio che conosciamo – i (preziosi) risultati conseguiti pragmaticamente da Moro e Andreotti negli anni ‘70 rispetto al terrorismo arabo. Però solo in quel modo lì – ne converrete – la politica stessa diventa avvincente, e configura una vera epica (Kennedy con la Nuova Frontiera trasformò in una avventura straordinaria la democrazia stessa, una cosa noiosa fatta soprattutto di regole). E, lo confesso, è il motivo per cui guardando The West wing sono sfiorato dalla sindrome Sollima. Di che si tratta? Semplicemente: vorrei essere americano! Una volta lo sceneggiatore e regista Sergio Sollima, amato da Tarantino, raccontò che quando era piccolo e vedeva i western un giorno i genitori gli “rivelarono” che non era americano, e ci rimase malissimo. Un trauma mai più superato.
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