L’aggressione razzista ai danni dell’onorevole Aboubakar Soumahoro sta proseguendo con il contributo o nell’acquiescenza di pressoché tutto l’arco politico-giornalistico, e ogni giorno che passa si carica di prove a propria denuncia: cioè a denuncia del fatto che appunto di quello si tratta, di una campagna aggressiva che ha molto poco a che fare con l’accertamento della verità, con le propugnate esigenze informative, con il rendiconto cui è chiamato il paladino dei deboli che invece faceva soldi e carriera sulle loro spalle, e ha piuttosto molto a che fare con un pregiudizio ben misurato sul colore della pelle del “talentuoso ivoriano”, come lo chiama qualcuno adoperando il protocollo giudiziario che rinfacciava “furbizia orientale” alla testimone magrebina.

La riprova più tonda e scandalosa di quel tratto razzista, posto a contrassegnare in modo evidente quanto denegato tutto il circo di questi giorni, sta nell’uso, cui ci si è abbandonati a destra e a manca, del più classico argomento difensivo puntualmente impugnato dal razzismo inconsapevole o no: vale a dire che quella matrice sarebbe esclusa considerando che a strillare contro quel signore sarebbero innanzitutto gli stessi che egli pretendeva di tutelare. “Ma quale razzismo?! Sono i migranti, sono gli stessi braccianti neri ad accusarlo!”. Che è quel che dice l’antisemita preso in castagna: “Io ho tanti amici ebrei! E anche loro dicono che sono avari! Anche loro dicono che Hollywood e Big Pharma è tutto un magna magna della lobby ebraica!”.

È comprensibile che questi razzistelli sentano sulla propria coda lo scomodo tallone di chi fa osservare che possiamo girarla come vogliamo, ma siamo il Paese in cui un signore impugna il rosario e lo agita in faccia ai migranti da ributtare in mare in nome di Gesù Cristo, il Paese in cui il medesimo signore annuncia l’invio delle ruspe contro la “zingaraccia”, il Paese in cui la stampa coi fiocchi mette in prima pagina il controllore del treno che fa la ramanzina “Agli africani senza biglietto” (notoriamente gli italiani lo pagano tutti, il biglietto, e quando capita che non lo paghino finiscono in prima pagina col titolo “Acciuffati due di Treviso che viaggiavano gratis”), il Paese in cui il deputato in fregola si fa cronista della razza bianca violentata strillando su Twitter che lo stupratore “È un immigrato”, e sarà evidentemente una pura combinazione se non fa altrettanto quando il bruto è di Abbiategrasso o di Macerata.

E nel Paese in cui queste cose (per non dire di quelle ben peggiori) succedono regolarmente, e senza che esse siano avvertite come l’indice molto preoccupante di un rapporto gravemente disturbato con il diverso, lo straniero, l’appartenente a culture e a ranghi sociali in zone di sospetto, ebbene in un Paese così è comprensibile che non si riconosca, per inconsapevolezza o più spesso per malafede, che a fare le pulci al rogito e alle mutande griffate della moglie di Soumahoro non è la brama di verità ma la tigna razzista che si occupa dei diritti dei migranti, vedi tu la combinazione, quando è il nero a maltrattarli.

La tigna che gli rimproverava di non aver ripudiato pubblicamente la cerchia familiare, di non aver reclamato un po’ di giustizia democratica sulle spalle della moglie oltraggiosamente rivestite di capi alla moda, e che ora gli rinfaccia di non aver ancora rinunciato allo stipendio parlamentare di decretata scandalosità dai palchi dell’informazione che razzola nella trincea dell’onestà, quella che cura il diritto di sapere dei cittadini perbene che tirano la carretta mentre quello là sale a Montecitorio con il fango fasullo sugli stivali. Torni al posto suo, questo impostore, e trionfino finalmente i diritti dei migranti che lui e la suocera hanno messo nel nulla. Evviva il giornalismo tutto d’un pezzo che invece li difende, questi derelitti nelle piantagioni schiaviste e nelle periferie sbrindellate, li difende dalla mafia nera del clan Soumahoro.