Angelo Burzi è la quarantaduesima vittima di Tangentopoli. Ucciso dall’ingiustizia, si è tolto la vita la notte di Natale. Come Sergio Moroni, come Gabriele Cagliari, come i quarantuno che lo hanno preceduto. Cui vanno aggiunti quelli morti di dolore e di malattia dopo la gogna giudiziaria. Ha lasciato lettere molto precise di accusa contro l’uso politico delle inchieste, non un testamento ma una rivendicazione di dignità, di quell’immagine di persona perbene che la casta in toga ha voluto togliergli di dosso.

Burzi è stato uno dei fondatori di Forza Italia in Piemonte, poi capogruppo in Regione per quattro legislature, tra il 1995 e il 2010, e assessore al bilancio del governatore Enzo Ghigo. La vendetta politico-giudiziaria che lo riguarda, che si è scagliata come una bomba intrisa di moralismo su di lui come su centinaia di altri ex consiglieri e assessori di tutte le regioni d’Italia, si chiama “Rimborsopoli”. È un vero scandalo nazionale, nato su un equivoco (i fondi per i rimborsi spesa a disposizione dei gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno natura privatistica o pubblica?) e trasformato in una vera caccia all’uomo in ogni regione, con i consiglieri additati all’opinione pubblica come ladri del denaro pubblico e come persone prive di moralità.

Angelo Burzi aveva chiesto il rimborso di 3.600 euro per un video elettorale girato nella campagna del 2010. E poi altri 27.000 euro per pagare consulenze per progetti di legge. Era denaro a disposizione dei gruppi regionali per iniziative politiche. Lui, da liberale qual era, aveva usato i fondi con parsimonia, facendone un uso politico, come previsto e ritenuto lecito dai regolamenti in quegli anni. Non sapeva, come non sapeva nessuno, che il suo comportamento sarebbe stato anni dopo ritenuto un reato, peculato. Ma un tribunale presieduto da una giudice di quei (pochi) che decidono con il codice in mano, lo aveva assolto. E con lui l’ex presidente regionale Roberto Cota. La dottoressa Silvia Bersano Begey, presidente della prima sezione penale di Torino, morta nel febbraio scorso, viene citata nelle lettere d’addio di Angelo Burzi e ricordata nei necrologi sulla Stampa dai suoi colleghi così come dagli avvocati, come “Magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Se ne vanno sempre i migliori, potremmo banalizzare, ma sapendo che stiamo dicendo in questo caso qualcosa di vero, di reale.

Dieci anni di persecuzione politico-mediatico-giudiziaria. Perché a quell’assoluzione, nell’assurdità tutta italiana, con i pm che possono ricorrere contro processi finiti con l’innocenza dell’imputato, seguirono una condanna in appello, poi una Cassazione che fa ripetere il secondo grado e infine ancora la condanna. Tre anni di carcere. Con anche le umiliazioni parallele. Perché la Corte dei conti del Piemonte, come anche quella della Lombardia e altre ancora, cioè lo stesso tribunale che aveva sempre approvato i bilanci regionali e che non aveva mai sollevato obiezioni sulle modalità di spesa dei rimborsi, si era svegliata d’improvviso dal dormiveglia, scoprendo di botto il danno materiale e anche d’immagine arrecato dai consiglieri alla stessa Regione. Cominciando a chiedere indietro i soldi spesi e a erogare condanne pecuniarie. E d’incanto anche una torma di giornalisti da quattro soldi, con la penna intrisa nell’invidia e nel rancore politico, andava spigolando tra le carte per trovare quei pochissimi (veramente pochi) che avevano esagerato, facendosi rimborsare non solo le cene elettorali ma anche qualche scappatella non politica, non solo i libri ma anche oggetti diversi. Quei pochi erano diventati l’immagine deformata di tutti.

“Rimborsopoli”, proprio come la sua sorella maggiore “Tangentopoli”, è nata in gran parte nei titoli scandalistici di giornalacci, oltre che nella furia dei pubblici ministeri. «Angelo? Un innocente perseguitato per dieci anni», ha detto la moglie dell’ex assessore Burzi. E ha ricordato quanto il marito si sia sentito umiliato, dopo la sentenza di condanna dello scorso 14 dicembre, nell’apprendere che gli sarebbe stato tolto anche il vitalizio. Non un dispiacere dovuto a problemi economici, piuttosto uno sberleffo alla travaglio, un “tiè, così impari”, un calcio a chi è già per terra.

Un po’ quel che era capitato nel 1993 al socialista Sergio Moroni, uomo politico e farmacista stimatissimo di Brescia, che d’improvviso vedeva i suoi concittadini guardarlo con sospetto, dopo che una semplice informazione di garanzia era stata strombazzata sui giornali come una pena di morte. E suicidio fu. Ricordo la voce rotta dal pianto di Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei deputati, mentre leggeva la lettera d’addio. Anche quella era un forte messaggio politico, e piangevamo in molti, in quell’aula. Sconvolto, allora come in seguito, l’amico e compagno di partito Paolo Pillitteri: «Eravamo amici, la sua morte è la cosa più sconvolgente accaduta in quegli anni. Dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia si sentiva respinto dalla sua città, non aveva più voglia di niente, era privo di speranza, era scomparso l’uomo forte che io conoscevo, era un uomo annientato».

Il punto è proprio questo: l’assassinio, la pena di morte. Quella che uccide la tua reputazione, prima di tutto. Perché un titolo di giornale, un’informazione di garanzia, e poi il processo e la sentenza possono annientarti. Ma quel che più uccide è il tempo che passa, lo scorrere dei giorni e degli anni, e tu intanto non puoi prendere un treno o un aereo perché, anche se prima nessuno sapeva chi tu fossi, “dopo”, dopo che la tua faccia è stata sbattuta in ogni dove, temi di esser riconosciuto e insultato.

Che importa se dieci anni dopo sarai assolto? Intanto tu per prendere quell’aereo devi mascherarti con occhialoni e cappellino, e vergognarti come un colpevole anche se non sei neanche mai passato con il semaforo rosso. Angelo Burzi, come Sergio Moroni, non ha sopportato tutto questo. Ha sottratto il suo corpo, non ha voluto esser costretto a mascherarlo per farlo accettare. Si è tolto di mezzo, ha scelto la dignità di quel colpo di pistola. Angelo era veramente una persona gentile, ha telefonato ai carabinieri perché arrivassero alla sua morte prima della moglie: non voglio che mi trovi lei, ha detto agli agenti. Si è chiamato fuori. Come Gabriele Cagliari, che la moglie e i figli aveva preferito non incontrarli a San Vittore, ma che aveva tanto sperato nella scarcerazione che, secondo il suo difensore Vittorio D’Ajello, gli era stata promessa, nella forma dei domiciliari, dal pm De Pasquale.

La sua lettera d’addio («siamo come cani in un canile», «il detenuto è una pratica da sbrigare», «il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima») è un documento politico che ogni pm, che ogni giudice dovrebbe tenere sulla scrivania prima di chiedere o dare la galera. Non dimenticherò mai la cella numero 102 del quinto raggio, quello dei detenuti “comuni” e lui che, due giorni prima di darsi una morte non prevista, mi pregava di occuparmi di “quel ragazzo del Ghana”. Lui sperava almeno di poter andare a casa, e aveva familiari e avvocati. L’altro non aveva niente. Due giorni dopo lui non c’era più.

Non ricordo, nel corso di questi trent’anni, di aver mai sentito qualcuno di quei pubblici ministeri di Mani Pulite, esprimere parole di cordoglio, di dispiacere per quelle quarantuno persone che si sono tolte la vita, né per quelle che sono morte d’infarto o di tumore per l’ansia o il desiderio inconscio di completare la distruzione del proprio corpo, iniziata dal cinismo di pm e giornalisti. Ricordo solo, purtroppo, quel che disse un giorno uno di loro, il procuratore Gerardo D’Ambrosio, alla notizia dell’ennesimo suicidio: «Vuol dire che c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Peccato che non sia una virtù di certi magistrati.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.