Premio Nobel per la pace, ma anche aspramente criticata dalla comunità internazionale per non aver voluto condannare la persecuzione, con tanto di esecuzioni sommarie e stupri, condotte dalle forze armate birmane nei confronti dei Rohingya.

È il doppio volto di Aung San Suu Kyi, per anni simbolo della battaglia per i diritti umani nel suo Paese tanto da venir insignita del Premio Nobel per la pace nel 1991. La politica birmana, dopo l’esito vittorioso delle elezioni generali del novembre 2020, ritenute fraudolente dalle forze armate del Myanmar, è stata arrestata oggi nell’ambito del colpo di Stato promosso dall’esercito.

UN PAESE GUIDATO DAI MILITARI – Non si può parlare di Aung San Suu Kyi senza spiegare la complicata situazione politica della Birmania/Myanmar: un Paese che dal 1962 al 2010 è stato guidato da giunte militari, quando si instaurò un primo governo civile, mentre nel 2015, anno delle prime elezioni libere, il premio Nobel per la pace vinse col suo partito, la Lega nazionale per la democrazia.

ARRESTI E CARRIERA POLITICA – Aung San Suu Kyi è stata più volte arrestata e posta ai domiciliari dal regime militare birmano. Nel 1990 il regime convocò elezioni generali vinte in maniera schiacciante dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, che sarebbe quindi diventata Primo Ministro. Un voto non accettato dalla giunta militare che annullò il voto popolare. L’anno seguente Aung San Suu Kyi vinse il premio Nobel per la Pace e gli arresti domiciliari le furono revocati soltanto nel 1995, pur restando in uno stato di semilibertà e non potendo lasciare il Paese, perché in tal caso le sarebbe stato negato la possibilità di fare ritorno.

Dopo continui arresti e rilasci, oltre ad una condanna a tre anni di lavori forzati per violazione della normativa della sicurezza poi commutata in dalla Giunta militare in 18 mesi di arresti domiciliari, solntato nel novembre 2010 Aung San Suu Kyi fu finalmente liberata. Due anni dopo il premio Nobel ottenne un seggio al parlamento birmano, mentre in occasione delle prime elezioni libere del 2015 la Lega Nazionale per la Democrazia vinse ottenendo 291 seggi. Il governo era guidato da Htin Kyaw, con Aung San Suu Kyi prima ministro e poi dal 2016 Consigliere di Stato, diventando una sorta di presidente ‘de fact’ della Birmania.

IL CASO ROHINGYA – Da simbolo della pace e della volontà da parte del popolo birmano di avere finalmente un governo democratico del Paese, Aung San Suu Kyi dal 2017 ha dovuto fare i conti con una pesante campagna mediatica a lei ostile.

Il ‘caso’ nasce dalle aspre critiche ricevute da un altro Premio Nobel per la pace, la pakistana Malala Yousafzai, che chiedeva ad Aung San Suu Kyi di denunciare pubblicamente le violenze commesse dall’esercito birmano nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya, con 700mila persone costrette alla fuga dalla regione del Rakhine.

Per anni il Premio Nobel non si espone pubblicamente sulla questione, ricevendo critiche da più istituzioni, fino a quando, nel 2019, Aung San Suu Kyi appare davanti alla Corte internazionale di giustizia difendendo l’operato dell’esercito dalle accuse di genocidio. Quest’ultime erano state definite da Aung San Suu Kyi “incomplete e fuorvianti”, mentre gli attacchi delle forze armate erano giustificati come una reazione militare ai raid dell’Esercito della Salvezza Arakan Rohingya.

Parole che non hanno avuto effetto: nel gennaio 2020 infatti la Corte internazionale di giustizia ha deciso che esisteva un “rischio reale e imminente di un pregiudizio irreparabile per i diritti” dei Rohingya, ordinando al governo birmano di prendere “tutte le misure in suo potere” per proteggere la minoranza musulmana da azioni genocide.

Redazione

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