Non è vero che la rivolta non serve mai a nulla. Nel grigio, serio e cattolicissimo Cile, con istituzioni e società tuttora irregimentate nella gabbia di norme sopravvissute alla dittatura di Augusto Pinochet (’73-’90) , dove anche la socialista Michelle Bachelet per governare è rimasta incatenata ai vincoli imposti dalla Democrazia cristiana sua alleata, è stato eletto domenica presidente Gabriel Boric, un trentacinquenne spuntato dalle barricate in fiamme che in due ondate successive, nel 2011 e nel 2019, hanno bruciato le strade di Santiago, di Valparaiso, giù giù fino alle terre sperdute del sud.
E con il 56 % dei voti. Nelle elezioni più partecipate da quando, dieci anni fa, è stato abolito il voto obbligatorio. Con 11 punti di vantaggio sul rivale, Antonio Kanz, un pinochettista nostalgico nonostante abbia 55 anni. Il candidato più a destra che il pur fascistissimo Cile abbia mai avuto dalla fine del regime militare. Boric non ha alle spalle anni da leader. Non è del partito comunista e non è nemmeno gruppettaro. È solo uno dei tanti che hanno bloccato Santiago negli ultimi anni di proteste contro l’uscente governo di Sabastian Piñera. Alle elezioni s’è presentato lui, invece di un altro, quasi soltanto perché era uno dei pochissimi di quelli in strada a superare l’età minima prevista dalla legge per candidarsi. È figlio di immigrati poveri, viene dalla provincia profonda verso l’Antartide.
Al ballottaggio, domenica, era atteso un testa a testa al cardiopalma con Kanz al quale si supponeva arrivassero anche tutti i voti di Parisi, l’outsider piazzatosi terzo al primo turno, un trumpiano che non mette piede in Cile da undici anni perché ha un arretrato di milioni di alimenti non pagati ai figli e che ha fatto il pieno di voti al nord grazie alla campagna giocata tutta contro gli immigrati: “fuori boliviani, peruviani e pezzenti vari dal Cile”. Slogan molto graditi nelle terre settentrionali, le terre arse delle miniere, dove i minatori non sono più gli operai comunitari antiregime degli anni Settanta, ma immigrati che si muovono in jeep 4×4 e odiano gli altri immigrati arrivati dopo di loro. Soprattutto se sono venezuelani accampati in tende di fortuna aspettando un passaggio per Santiago. Gente caraibica, caciarona e spiantata. Invasori planati da un altro pianeta.
La sorpresa del distacco di Boric sul rivale è stata data dal voto in massa , senza precedenti e non previsto, arrivato dai quartieri marginali da cui si sono mosse a piedi colonne di elettori. Perché domenica, in molti sobborghi poveri della capitale, i trasporti pubblici si sono magicamente bloccati. Invece del solito riot di protesta, è partita una lenta marcia verso i centri elettorali. Invece del corri e brucia, un cammina e vota. Fenomeno inedito. Boric aveva certi solo i voti, per loro natura incerti, del Frente Amlio, rete di sigle nata dopo la rivolta del 2019, e quelli del partito comunista (che rischiavano di costargli al ballottaggio la perdita di tutto il centro moderato spaventato dal rischio Kanz ma terrorizzato dal rischio Pc). Ha guadagnato verso il secondo turno l’appoggio di una parte del Partito socialista. Ma non avrebbe mai vinto se non fosse riuscito a recuperare quella valanga di voti di sinistra per anni naufragati nell’astensione.
Domenica sera nel primo discorso di piazza – una piazza di ragazzi in festa dove chi c’era racconta che non sarebbe entrato nemmeno un filo d’erba, non si respirava, non ci si muoveva, gente ovunque – Boric ha detto che formerà “un governo con un piede nella strada”, ha confermato che abolirà l’odiatissimo sistema dei fondi pensione (osannato negli anni Novanta come modello puro di liberismo classico da imitare) e ha promesso una riforma strutturale della società in senso paritario, cominciando dal sistema scolastico inaccessibile ai non ricchi perché interamente privatizzato.
Tutti l’attendono ora al varco per capire chi farà ministro delle finanze (si dice sia disposto a nominarlo subito) chi farà il ministro dell’interno (grande tumulto nel Pc e nel frente Amplio accusati di non aver mai condannato davvero le violenze nei riot degli ultimi due anni) e chi farà ministro degli esteri (e lì i comunisti hanno prontamente già detto che la diplomazia la farà il presidente dalla Moneda, così da non dover rivedere i loro rapporti con i regimi in Nicaragua, Venezuela e Cuba, rapporti troppo fraterni perché non vengano comunque rinfacciati al neopresidente il quale può solo sperare che ad ottobre vinca Lula le presidenziali in Brasile per poter contare su una robusta sponda sennò finisce fritto).
Quelli che Boric rischia di pagare cari e subito sono i voti arrivati all’ultimo minuto dal Partito socialista. La cofana anni Ottanta di una sempreverde Isabel Allende già spuntava ieri da tutti i telegiornali anche se solo per sussurraree (per ora): avevamo detto che il nostro appoggio era gratuito. Il terremoto di domenica, per la verità, era già stato annunciato dai risultati delle elezioni per la Costituente un anno fa. Lì la destra politica, potere solidissimo mantenutosi assai influente nella società cilena dopo la fine della dittatura, non aveva raggiunto che uno smilzo 20%. Si era allora votato insieme alle amministrative e la destra era quasi scomparsa lasciando tutto a una diffusa sinistra uscita dalle mobilitazioni di piazza di due anni fa.
Con grande stupore di tutti era risorto anche il vecchio partito comunista cileno che da solo e con candidati perlopiù giovanissimi s’è preso il 5 % degli scranni nella Costituente e raggiunge il 19,8% nell’alleanza con Frente Amplio. Oltre ad essersi conquistato il governo del comune di Santiago. Mai stata prima governata dai comunisti, nemmeno ai tempi del governo di Unidad popular di Salvador Allende. I cileni già in quella stupefacente tornata elettorale avevano mostrato di non volersi buttare su un voto di protesta antipolitico di destra e di scegliere candidati usciti dalle mobilitazioni di piazza. Michelle Bachelet durante i suoi sofferti governi di centrosinistra aveva promesso di spazzare via la Costituzione pinochettista – fu una delle mosse più astute di Pinochet saper imporre alla transizione democratica una Costituzione che gli sopravvivesse facendo sopravvivere così alcuni assetti di potere fondamentali della dittatura, tra i quali l’insieme dei privilegi economici e degli strumenti di influenza delle forze armate – ma si trattava di una promessa impossibile da mantenere perché non avrebbe mai avuto dalla Dc e dalle varie destre (pinochettiste e non) i voti necessari a farlo.
Il testo costituzionale è sempre stato il grande totem della parte reazionaria, non necessariamente minoritaria, dell’establishment cileno. Toccare la Costituzione ha sempre significato sfidare la cultura profonda di un Paese in cui il generale Pinochet ha potuto contare a lungo su un vasto consenso anche tacito. Ora che il tabù è infranto, il Cile si ritrova un presidente eletto per risolvere in favore dei più poveri la questione eterna nazionale: quali costi sociali ha il modello economico adottato durante la dittatura. Il grande problema resta la forbice tra ricchi e poveri. La differenza sociale è perpetuata dal funzionamento del modello di studi universitari adottato finora. Un laureato entra nel mercato del lavoro con 30 o 40 mila dollari di debito da restituire alle banche che gli hanno erogato il prestito scolastico per accedere alle prestigiose università di Santiago. È quello il soggetto sociale che ha travolto la destra a Santiago, la destra più conservatrice e più razzista d’America. Sabato scorso il capo degli industriali diceva alle tv in disperato appello al voto: se vince Boric in Cile si instaurerà la dittatura del proletariato.