Sapete chi è il padre del giornalismo culturale e della critica letteraria militante in Italia? L’intellettuale settecentesco Giuseppe Baretti, torinese, cosmopolita, spirito libero dotato di verve polemica e vigore dello stile, con il senso dell’ironia e del paradosso (a lui, alla sua onestà e indipendenza di giudizio intitolò una rivista Piero Gobetti!). Per le sue peregrinazioni e i suoi viaggi in mezza Europa in cerca di fortuna, appartiene di diritto alla famiglia degli intellettuali avventurieri, del tipo di Lorenzo Da Ponte (a Londra, oltre a dirigere un teatro italiano e a scrivere dizionari e saggi, venne anche coinvolto in una rissa di strada, dove per difendersi uccise uno col coltello). Di tutto questo si è parlato nel “Seminario su Lingua e stile in Giuseppe Baretti”, organizzato dal Comitato Nazionale per le celebrazioni dei trecento anni dalla nascita di Giuseppe Baretti”, presieduto da Daniela Marcheschi.
Baretti, di famiglia borghese, dopo incerti tentativi in architettura e giurisprudenza, comincia a scribacchiare (mediocri) poesie comico-burlesche e a trent’anni si stabilisce a Londra, dove conosce il meglio della intellettualità, da Fielding al dottor Samuel Johnson. Torna in Italia dopo dieci anni e fonda a Venezia la rivista quindicinale “La frusta letteraria”, su modello di quelle inglesi poi chiusa con atto censorio (rivista simile fu il “Caffé”, milanese, ma più illuminista, meno rissosa e personalizzata). Con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, fingendosi un ex soldato con una gamba di legno che legge (e frusta) tutte le novità letterarie, la rivista se la scrive interamente da solo (come nel ‘900 Kraus con “Die Fackel”): recensioni, articoli, invettive, polemiche, dialoghetti (con un interlocutore immaginario, il curato don Petronio), risposte a false lettere.
Un fuoco di artificio di invenzioni e provocazioni. Baretti fa incontrare la critica letteraria con la satira culturale e il saggio alla Montaigne: suo bersaglio è l’accademismo, i cruscanti, il formalismo e la frivolezza dell’Arcadia, in nome di una letteratura «combattiva e concreta», e di «cose naturali, cose belle, cose grandi» dette «con semplicità, con forza, con entusiasmo». Possiamo disapprovare i suoi giudizi – stronca Boccaccio e Goldoni ed esalta Benvenuto Cellini («uomo ignorantissimo») e Metastasio – , a volte può apparirci troppo lunatico o spavaldo, ma Baretti non delude mai perché comunque senti sempre la relazione tra questi giudizi e il suo carattere (idiosincratico). Alla fine si impone lui stesso come straordinario personaggio letterario (un po’ come succede con le recensioni di Pasolini). Le “verità” di Baretti possono essere respinte ma sono verità vissute: ti costringe a confrontarti con la sua esperienza, e dunque a mettere in gioco la tua.
Con la “Frusta” inventa anche un pubblico, e lo fa attraverso una lingua colta e non erudita, vivace e comunicativa, duttile e moderna, impastata di parole ricercate, gerghi popolari, latinismi, prestiti da lingue straniere (ne conosceva quattro o cinque). O meglio: prova a snidare quel pubblico da una società come quella italiana del ‘700, afflitta dai suoi endemici problemi di ritardo e ancora distante dalla modernità, lo aiuta a formarsi. In quel periodo, con la fioritura di giornali e riviste, nasce in Occidente l’opinione pubblica: per la prima volta il letterato deve rendere conto a un pubblico (non è più l’accademico o il cortigiano), e ciò lo responsabilizza: ha l’obbligo di essere “interessante”, non può più contare su una rendita di posizione. Da allora il giornalismo culturale deve saper affrontare questa affascinante sfida: comunicare tendenzialmente con tutti attraverso una lingua “spettacolare” ma non degradata.
Quello di Baretti è un ruolo di mediazione, contro i troppi cattivi mediatori. La critica diventa genere letterario a sé stante, e il critico, proprio come il romanziere, deve possedere – oltre a buone letture e gusto personale – intelligenza scenica, inventività narrativa, immaginazione sociologica, abilità ritrattistica, intuito psicologico, visione “politica” in senso lato (cognizione delle forze in campo), sensibilità per la lingua. Suo obiettivo è smascherare la «brutta impostura», attaccare «rabbiosamente» i libri del suo tempo: «commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole…».
Chi sono i suoi eredi nell’Italia contemporanea? Mi limito a un solo esempio: l’esperimento della rivista “Diario” (1985-1993), fondata da Alfonso Berardinelli e Piergiorgio Bellocchio e da loro interamente scritta. Memorabile, e di involontaria ispirazione barettiana, la stroncatura che scrisse Bellocchio – con una satira finissima e costruita magistralmente – del Nome della rosa di Eco («Un’eco è un’eco è un’eco è un’eco…»), presentato da un cameriere a un cliente come insipida Zuppa Medievale, che contiene tutte le zuppe: «è l’Aleph delle zuppe».
Non sappiamo se saremo in grado, come Aristarco Scannabue, di intercettare il «flagello di cattivi libri» che oggi si stampano, e di scriverne schiettamente, «senza raggiri di frasi». Certo l’ostinato, intrattabile Aristarco Scannabue, poteva farlo perché si era un po’ ritirato dalla vita mondana, dai riti sociali e dai luoghi del potere. Questo il gesto decisivo. Ritirarsi, separarsi, e in mancanza di interlocutori inventarseli. Solo in questa vocazione misantropica il critico intellettuale e il giornalista culturale possono fondersi con l’intellettuale eretico, e denunciare l’impostura.