Dai gilet gialli alla fede atlantista
Chi è Luigi Di Maio, il migliore e peggiore della scuderia di Casaleggio
“Non è uno scontro tra Di Maio e Conte ma tra Di Maio e l’intero M5S”: parola di Roberto Fico, presidente della Camera, pentastellato di vecchissima data, uno che di solito pesa le parole. Proprio per questo quella dichiarazione secca suona come un de profundis per il Movimento di cui nessuno più di Luigi Di Maio, classe 1986, è stato negli anni il volto pubblico e soprattutto, nel bene e nel male, l’emblema. Il contrario di Conte, arrivato alla presidenza del consiglio su spinta del Movimento ma senza essere neppure mai stato iscritto, esaltato dai media proprio come l’uomo capace di “normalizzare” e istituzionalizzare il Movimento. Insomma di domare quelli come Di Maio.
Il campione dell’atlantismo, il ministro in carica da cinque anni con tre governi diversi, il volto oggi più accettabile e accettato da quelli che per anni i 5S neppure sopportavano di sentirli nominare era all’epoca reprobo quanto e più del gemello e amico/nemico Alessandro Di Battista. E Giggino da Pomigliano d’Arco pareva farlo apposta a calcare la mano, andare fuori dalle righe, esagerare sempre: deputato a 26 anni grazie ai 189 voti online ottenuti nelle parlamentarie online del 2013; vicepresidente della Camera nello stesso anno, il più giovane della storia e probabilmente il meno votato, appena 173 voti furono sufficienti; beniamino di Gianroberto Casaleggio, il solo vero capo che il Movimento abbia mai avuto; capo politico del Movimento, stavolta con 30.936 voti degli iscritti, quasi un plebiscito, l’82,% dei votanti; vicepremier e ministro dello Sviluppo a 32 anni, poi ministro degli Esteri in due governi opposti, uno dei pochissimi a passare indenne nel terremoto che espulse da palazzo Chigi Conte, con il suo silente beneplacito, per rimpiazzarlo con Mario Draghi, di cui oggi è fedelissimo.
Nulla di strano. Sembra la carriera, certo molto brillante, di un politico di professione che in altri tempi, probabilmente, avrebbe tentato la scalata con la tessera dello scudo crociato in tasca. Ciò che rende l’avventura anomala, la scalata improbabile è che l’enfant prodige si è fatto strada nelle istituzioni usando come leva l’anti-istituzionalismo più vibrato, inanellando dichiarazioni roboanti che deliziavano quanti non vedevano l’ora di dimostrare la pericolosità estrema, l’improntitudine insanabile, di quello strano movimento tenuto a battesimo da un comico a colpi di Vaffa. Gigino era quello che nei giorni del braccio di ferro col capo dello Stato che si rifiutava di nominare ministro dell’Economia il no euro Paolo Savona non esitava a chiederne l’impeachment. Quello che incurante del senso del ridicolo, la sera in cui fu varato il reddito di cittadinanza, apostrofava la scarna folla dal balcone di palazzo Chigi annunciando “la fine della povertà”. Peggio ancora era il numero due del governo che nel gennaio 2019 non esitava a incontrare la bestia nera d’Europa in quel momento, i gilet jaunes che mettevano a ferro e fuoco Parigi e poi a dichiarare entusiasta che “le posizioni e i valori comuni sono molti. Il vento del cambiamento ha valicato le alpi”.
Sia chiaro: nonostante il populismo ruggente, la solidarietà con i barricadieri e l’abolizione della povertà, il giovanotto rampante non ha mai cercato di farsi passare per uomo di sinistra. Al contrario, nel gioco delle parti inventato da Casaleggio per foraggiare la leggenda del Movimento “né di destra né di sinistra” a Di Maio toccava la parte del leader in grado di rivolgersi all’area dell’elettorato più tradizionalista: “Da cattolico penso che la famiglia sia quella con un papà e una mamma. Sulle adozioni per le coppie gay bisogna andare con i piedi di piombo”. Del resto nella meteorica esperienza del primo governo Conte, quello retto dalla maggioranza gialloverde, i suoi rapporti con Salvini erano idilliaci mentre proprio quelli con Conte, che avrebbe di gran lunga preferito il Pd alla Lega e non mascherava l’intento di “civilizzare” il Movimento, non sono mai stati davvero rosei.
Nel Movimento Di Maio era l’uomo di sfondamento contro la sinistra. Il capofila della campagna di Bibbiano: “Con il partito che in Emilia toglie i bambini alle famiglie io non voglio avere niente a che fare”. Il primo a lanciare la campagna contro le Ong colpevoli di salvare immigrati nel Mediterraneo: “Sono taxi del Mediterraneo. Quelli che le difendono sono ipocriti che fingono di non vedere il business dell’immigrazione”. Casaleggio aveva occhio. Di Maio era portato naturalmente per quel ruolo. Già al liceo s’era inventato una lista per sconfiggere la sinistra da sempre egemone nella scuola e c’era pure riuscito. La leggenda del “bibitaro” ha un fondo di verità. Di Maio ha fatto davvero un po’ di tutto: tecnico informatico, bravissimo a suo dire, aiutoregista, cameriere e anche steward allo stadio. Ma viene da una famiglia di imprenditori edili e la politica contro la sinistra la ha respirata sin da piccolo, col padre militante del Msi e poi di Alleanza nazionale. È vero che ad Antonio Di Maio il salto in politica come candidato al consiglio comunale di Napoli non era riuscito e anche per questo era contrarissimo alla scelta del figlio di scegliersi proprio quella carriera. È anche vero che tra i due non sempre i rapporti sono stati facili, ma sul pedigree antisinistra del futuro ministro degli Esteri non c’erano dubbi e Gianroberto l’Impresario, in cerca di volti nuovo da lanciare sul palcoscenico della politica, aveva fatto la scelta giusta.
Questione anche d’immagine, che nella politica contemporanea, che di politico ha ben poco, conta eccome. Se Di Battista era l’immagine descamisada del Movimento, il look capace di incendiare le piazze, Gigino è stato sin dall’inizio il doppio petto, la cura dell’aspetto, votato come “il più elegante tra i 5S” quando sbarcò in Parlamento. Quando nel gennaio 2020 lasciò l’incarico di capo politico, non senza denunciare quanti “vengono al fronte solo per pugnalare alle spalle”, si tolse emblematicamente la cravatta. Nessuno dubitò sul fatto che se la sarebbe rimessa prestissimo e così è stato. Tra i tantissimi catapultati in Parlamento dall’ondata grillina Di Maio è certamente quello che ha più testa politica, se per politica s’intende il fiuto per vento temperie e convenienza, la capacità di cogliere al volo l’occasione, le doti strategiche di cui difettano spesso anche le volpi della politica. È stato il primo a capire che il grande momento del populismo barricadero era passato e allo stesso tempo il più astuto e pericoloso rivale di Conte il normalizzatore.
Ha lavorato con diligenza per minare il potere di quell’ultimo arrivato nominato capo di un Movimento del quale non aveva mai fatto parte, collaborando senza mai esporsi alla sua cacciata da palazzo Chigi: quando Conte, sopravvissuto all’uscita di Renzi dalla sua maggioranza pensava già di essersi salvato fu Di Maio a chiarirgli che l’eventuale sfiducia contro il guardasigilli Bonafede avrebbe imposto anche a lui le dimissioni. Non era scritto da nessuna parte e per Conte fu un suicidio. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri ha fatto il possibile per sostituire l’ “avvocato del popolo” come figura più affidabile, in Italia e all’estero, del Movimento. Ma dai gilet gialli alla fede atlantista assoluta è un bel salto e quel che resta dei 5S non glielo ha perdonato. In un modo o nell’altro la dipartita dal Movimento è già segnata. Resta solo da vedere il quando e il come. Ma con Luigi Di Maio il migliore e il peggiore tra i pargoli della scuderia Casaleggio, quello che più di ogni altro ha mantenuto e tradito le promesse, finisce il Movimento per come è stato sinora.
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