Il capo della task force di Cartabia voleva fare il vice
Chi è Massimo Luciani, il professore che deve abolire le correnti con cui intrallazzava…
Domanda: a chi affidare la Commissione ministeriale che dovrà riformare il Consiglio superiore della magistratura, sottraendolo al giogo delle correnti dell’Anm? Risposta: ad uno che voleva diventare vice presidente del Csm (il presidente è il capo dello Stato, ndr) ed aveva chiesto alle correnti di votare per lui. Il professore Massimo Luciani.
L’incredibile circostanza, per la quale è anche difficile trovare le parole, è emersa dalla deposizione dell’ex segretario generale di Magistratura indipendente, il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, davanti alla Prima commissione del Csm il mese scorso. Racanelli, per molti anni capo delle toghe di “destra”, era stato sentito a Palazzo dei Marescialli sui suoi rapporti con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Rispondendo ai quesiti dei consiglieri che volevano conoscere l’esatta natura di questi rapporti, Racanelli aveva “allargato” la discussione, riportando un curioso episodio accaduto nell’estate del 2018. Anche questa volta, bisogna ringraziare il consigliere Nino Di Matteo di aver colto “l’assist” di Racanelli facendosi raccontare con dovizia di particolari l’accaduto.
Ma iniziamo dalla fine. Il professor Luciani, presidente dei costituzionalisti, è colui che su mandato di Marta Cartabia dovrebbe predisporre la riforma del Csm che elimini lo strapotere dei gruppi associativi della magistratura a Palazzo dei Marescialli. Nell’estate del 2018, quando si doveva rinnovare il Csm, giunto a scadenza naturale, Luciani sarebbe stato attivissimo. «Venne da me Cascini (Giuseppe, ndr), ancora non si era insediato, e aveva fatto sapere che (Luciani) avrebbe accettato la candidatura solo se avesse avuto la garanzia di fare il vice presidente», esordisce Racanelli. I voti di Magistratura indipendente erano importantissimi. Prima del ribaltone Mi aveva ben cinque consiglieri al Csm. Tre furono poi fatti fuori per aver partecipato all’incontro con Palamara e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti all’hotel Champagne. Il racconto è molto circostanziato.
«Nel luglio 2018 ricevetti una telefonata di Cascini». Cascini, procuratore aggiunto a Roma come Racanelli ed esponente di primo piano della sinistra giudiziaria di Area, era stato eletto da poche ore al Csm. Una elezione “scontata”: per i quattro posti nella categoria dei pm, le quattro correnti candidarono un candidato a testa. Per essere eletti era sufficiente che i candidati si votassero da soli. «Senti Antonello, qui bisogna pensare seriamente, qui è interessato, è un grosso professore di diritto costituzionale che però ha una richiesta: lui accetta di essere nominato tra gli eletti dal Parlamento solo se c’è l’accordo all’unanimità di tutti i gruppi sul suo nome», ricorda Racanelli, riportando le parole di Cascini che, pur non essendosi ancora insediato a Palazzo dei Marescialli, manovrava alacremente per la scelta del vice di Sergio Mattarella. La scelta di Luciani era prendere o lasciare. Racanelli: «Guarda Giuseppe, non tocca a me decidere, io posso trasmettere il tuo messaggio e la tua richiesta ai consiglieri di Mi». Racanelli, che in quel momento si trovava in spiaggia in Sardegna per un periodo di relax, inviò subito un sms ai cinque neo consiglieri in quota Mi.
Il testo doveva essere all’incirca questo: «Guardate, Cascini mi ha chiamato, mi ha detto questa cosa, vuole l’appoggio di tutti i gruppi su questo nome. Decidete voi. Se siete d’accordo io dico a Cascini che Mi è d’accordo a eleggerlo».
I consiglieri di Mi, ricevuto l’sms di Racanelli iniziarono a consultarsi fra loro. Non è dato sapere se qualcuno si sia chiesto a che titolo Cascini stesse “sponsorizzando” Luciani. Cascini a nome di chi chiamava? A nome suo? A nome del Pd, partito di riferimento delle toghe di sinistra, che doveva indicare Luciani? A nome dello stesso Luciani? Domande rimaste senza risposta. Anche perché Racanelli, giocando d’anticipo, aveva messo le mani avanti con i consiglieri che lo interrogavano: «Non lo so e comunque non mi interessa saperlo. Anzi, non tocca a me saperlo». Terminato il consulto, comunque, i cinque consiglieri di Mi fecero sapere al loro capo che Luciani non andava bene. Racanelli, allora, riportò la ferale notizia: «Guarda Giuseppe, i consiglieri di Mi non sono disposti ad appoggiarlo come vice presidente».
Passa qualche settimana e Cascini, incassato il no a Luciani, riparte alla carica con Racanelli. L’allora segretario di Mi, terminate le ferie in Sardegna, era tornato in ufficio a piazzale Clodio. Proprio in quei giorni il Parlamento, in seduta congiunta, aveva eletto gli otto componenti laici del Csm. Il Pd aveva rinunciato a Luciani, la prima scelta e in ottimi rapporti con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ripiegando su David Ermini, ex responsabile giustizia dei dem, renziano di stretta osservanza. Cascini convocò Racanelli nel suo ufficio. E partì da lontano. «Sai – iniziò Cascini a cui evidentemente interessava moltissimo la nomina del futuro vice presidente del Csm – siccome sento dire che probabilmente Mi intende appoggiare il professore Lanzi (Alessio, eletto in quota Forza Italia, ndr), ti comunico che Lanzi è stato autore di un’audizione in Commissione bicamerale». Cosa aveva detto Lanzi di così tremendo da mettere in allerta Cascini? «Ha parlato della separazione delle carriere», la risposta di Cascini. Non sia mai. Parlare di separazione delle carriere a un pm è come parlare male della Madonna a Papa Francesco.
Racanelli rimase spiazzato. «Io non sapevo – aggiunse – di questo particolare, ognuno ha il suo modo di rapportarsi e sapere le vicende degli altri». Racanelli, come San Tommaso, chiese le carte a Cascini. «Fammi sapere cosa ha detto».
Cascini, che aveva già tutto, consegnò le copie della audizioni incriminate di Lanzi. Su cosa sia successo dopo il racconto di Racanelli, purtroppo, si interrompe. Ma qui entra in scena il libro di Palamara e Alessandro Sallusti e siamo in grado di ricostruire gli sviluppi successivi. Palamara, con Cosimo Ferri, fra i leader indiscussi di Mi e allora renzianissimo parlamentare del Pd, convinceranno i togati di Mi ad abbandonare Lanzi al suo destino in favore di Ermini. Cascini e la sinistra giudiziaria, per tutta risposta, decideranno di puntare sul grillino Alberto Maria Benedetti. L’elezione del vicepresidente del Csm, il 27 settembre del 2018, sarà al cardiopalma: 13 voti per Ermini, 11 per Benedetti. Determinanti saranno i voti dei capi di corte: il primo presidente Giovanni Mammone (Mi) e il pg Riccardo Fuzio (Unicost), soprannominato da Palamara “baffetto”.
I due laici leghisti, all’epoca eravamo in pieno governo giallo-verde, con Luigi Di Maio e Matteo Salvini in luna di miele con l’autorizzazione di Marco Travaglio, voteranno per Benedetti. Lanzi, che aveva visto sfumare sul traguardo la nomina a vicepresidente del Csm e sulla carta era il candidato che aveva più titoli di tutti, voterà scheda bianca. A fargli compagnia, l’altro laico di Forza Italia, l’avvocato napoletano Michele Cerabona. E Luciani? È diventato l’avvocato di fiducia di Piercamillo Davigo e di Michele Prestipino nei loro contenziosi contro il Csm. Che dovrebbe riformare.
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