L'addio all'intellettuale
Chi era Alberto Asor Rosa, l’anti-Pasolini che svelò il populismo
Oltre che un influente critico e storico della letteratura, Alberto Asor Rosa è stato anche un finissimo analista politico. Ha letto il caso italiano entro un’ottica temporale che prevede l’assunzione di più dimensioni: accanto alle riflessioni dedicate ai passaggi politici della congiuntura, che lo attraevano, per così dire, come intellettuale-militante, la sua attenzione è stata rivolta all’interpretazione della vicenda italiana scrutata entro l’ottica della lunga durata. L’intreccio tra l’origine della catastrofe e le ricadute nelle pieghe della quotidianità può forse essere rinvenuto nel suo saggio su Machiavelli e l’Italia (Einaudi 2019). Il Segretario fiorentino è osservato come un grande pensatore della crisi.
La sua è “una vicenda tragica, molto più tragica, che trionfante”. Alla base della produzione di Machiavelli c’è quella che Asor Rosa chiama “la disconnessione” ovvero la consapevolezza, per il pensiero critico-realista, dell’impossibilità di agire, di mutare le cose. Al pari di Guicciardini, con le sue categorie politiche rivelatrici del “pessimismo italiano” alle prese con la catastrofe registrata proprio alle soglie del moderno (Asor Rosa, Genus Italicum, Einaudi, 1997), anche l’analisi di Machiavelli si colloca a ridosso dell’instabilità, della corruzione, della caducità, dell’incertezza. Il carattere originale o eccezionale della vicenda italiana è impresso, per Asor Rosa, dal collasso del progetto di consolidamento politico-istituzionale. Con il fallimento del tentativo statuale, tra il 1492 e il 1530 si consuma la grande catastrofe italiana e il laboratorio di Machiavelli diventa “il tragico incubatoio negativo della futura identità italiana”.
La crisi di lunga durata, unita alle “infinite difficoltà di ripartenza”, si riverbera nelle dinamiche del ‘900. Non a caso Gramsci inventa il “suo” Machiavelli e, per leggere il presente, afferra la lente del fiorentino, accanto a quella del pensatore di Treviri. Scrive Asor Rosa: “È perché viene anche lui da una terribile disfatta che Gramsci afferra, o almeno tenta di afferrare, il nocciolo dell’insegnamento machiavelliano, e cioè il nesso indissolubile fra pensiero e azione, fra teoria e prassi”. Il realismo rivoluzionario ha la consapevolezza piena della possibilità e dei limiti invalicabili dell’azione collettiva. Scettico sul lessico gramsciano (non apprezza le locuzioni “nazionale-popolare”, “riforma intellettuale e morale”), Asor Rosa riconosce la produttività teorica della riflessione dei Quaderni sul senso della sconfitta e sulla difficoltà del riscatto del soggetto. “Non si può non cogliere qui lo sforzo che il pensatore-politico-carcerato compie per collocare Machiavelli e il suo Principe all’interno del suo proprio intero sistema”. Proprio entro questa cornice della grande catastrofe si colloca la questione del populismo come manifestazione di una carenza egemonica della borghesia italiana.
L’assenza di grande politica non può che tradursi in esercizi di piccola letteratura. Nel saggio Scrittori e popolo (Einaudi 1965 e 2015), il populismo, con il suo culto di tradizioni, valori e velleità umanitario-progressive, viene interpretato come un decadente “mito politico-letterario” che palesa, lungo tutta la sua esperienza, una “limitatezza provinciale e conservativa”. La rimozione del proletario, e quindi del conflitto politico, è la prevedibile conseguenza dei “tracciati spesso poveri e infantili del populismo indigeno”. Dinanzi ad una produzione letteraria subalterna e provinciale rispetto al grande quadro borghese europeo, la convinzione di Asor Rosa è che “il ruolo svolto dal populismo in Italia è prodotto e causa insieme dell’assenza di una forte, moderna, avanzata cultura borghese”. Anche uno scrittore borghese come Pavese, attento al mito e diverso dai canoni del populismo democratico-resistenziale, “quando avvertì il bisogno di essere scrittore sociale, fu populista”.
Il compimento della parabola del populismo, che si raccoglie nel mito del popolo-comunità e nel culto della terra come tradizione minacciata, è rintracciato in Pasolini. Ricorda Asor Rosa a Simonetta Fiori (Il grande silenzio, Laterza, 2010): “Una volta incontrai Pasolini a un’assemblea universitaria e mi disse: «Asor Rosa, l’uomo che mi ha fatto più male nella mia vita». Aveva l’occhio sbarrato, colmo d’odio”. Osservato come un fenomeno politico, oltre che artistico, il populismo appariva un discorso arretrato, funzionale al gradualismo riformista del Pci. La formula “masse popolari” assume la classe come una porzione minoritaria che obbliga a tessere politiche di alleanze per aggregare blocchi sociali competitivi. In nome della classe operaia come entità politica organizzata, Asor Rosa partecipa alle riviste dell’operaismo degli anni ’60. Dal popolo omogeneo, dal nazionale indistinto si deve discendere alla classe e insediarsi entro il luogo cruciale (per via dell’insediamento concentrato e combattivo dell’operaio-massa) della fabbrica come dimensione espansiva, capace di penetrare in ogni ambito del sociale. Bersaglio, in questa fase, è la “mediazione” vista come impedimento al farsi soggetto della classe.
Negli anni ’70, invece, matura la convinzione che l’operaismo, pur operando come un forte argine rispetto al populismo, difetta nella comprensione della specificità del fenomeno politico. Il progetto di un partito di classe senza compiti di mediazione, sintesi e alleanze, come quelli prospettati dal partito nuovo togliattiano, appare irrealistico. Come nota Asor Rosa (La cultura, in Storia d’Italia, Einaudi, 1975, p. 1657), all’analisi dell’operaismo “sfugge quasi completamente tutto ciò che potrebbe esser definito società politica. Sfugge cioè la politica, con tutti i suoi elementi soggettivi di trasformazione del sociale e di intervento sull’economico”. Oscillando tra inserimento nelle istituzioni, come forza alla ricerca di legittimazione, e intercettazione di una “seconda società” delusa e rivoltosa, il Pci rivela, secondo Asor Rosa (La cultura, cit.), tutta la carenza di una cultura a forte impronta filosofica e poco attrezzata a cogliere, in vista di una ricarica del “cervello del Principe”, il ruolo della cultura di massa (radio, scuola, editoria, teatro, cinema, tv) e le istanze dei nuovi ceti produttori di conoscenza. La sconfitta della stagione dell’autonomia del politico impone un rimescolamento delle carte della teoria per recuperare capacità di iniziativa.
“La fase 1976-1979 rappresenta la fine di un ciclo e, in quanto tale, ovviamente, l’inizio di uno nuovo, sostanzialmente diverso” (Asor Rosa, La sinistra alla prova, Einaudi, 1996, p. 36). Nei primi anni Ottanta, sulla rivista Laboratorio politico, Asor Rosa, con Tronti e un gruppo di intellettuali (non solo) comunisti, si cimenta nel passaggio “dall’ideologia all’approccio scientifico. Politologia, sociologia, teoria delle istituzioni – tutti campi che la cultura comunista aveva tenuto ai margini – entrano nel discorso culturale di questa sinistra, con una consistente apertura anche sul mondo delle scienze umane americane” (Asor Rosa, La sinistra alla prova, cit., p. 101). La rivista recupera i modelli matematici della teoria delle catastrofi (impossibilità di predefinire il punto critico nei termini di un esito univoco delle trasformazioni) per leggere i processi di “post-democrazia”, che impongono, con realismo, di pensare le istanze di governo oltre l’impostazione del protagonismo delle masse (si arriva a parlare di “ceto, staff, tecniche e strutture” per decidere).
La fine del secolo breve e lo scioglimento del Pci mostrano un Asor Rosa sempre più scettico sui costi delle scorciatoie della leadership personalistica occhettiana, che gli sembra di stampo quasi craxiano (cfr. La sinistra alla prova, p. 133). Nel dialogo del leader con l’opinione pubblica, che segna il tempo della Seconda Repubblica, si manifestano fenomeni fortemente regressivi nei campi del sapere, della produzione culturale, delle credenze di massa. Asor Rosa avanza l’ipotesi “della trasmigrazione semisecolare dal «popolo democratico» alla «massa post-democratica». Son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico- culturale fondato sul moderno”. In presenza di questa nuova catastrofe politico-culturale, Asor Rosa suggerisce di non ricorrere ad un uso inflattivo della categoria di populismo. “Bisognerà ammettere che alla definizione di «populismo» oggi non corrisponde più nulla di reale, e ancor meno a quella di «antipopulismo», usata peraltro con un’abbondanza indiscriminata, che lascia sospettare che ci sia, in coloro che continuano ad utilizzarla, la più totale ignoranza dell’oggetto, o degli oggetti, di cui parlano”.
La manifestazione di un conformismo di massa, che poco conserva dell’antica nozione di popolo, sollecita letture non pigre dei processi storici. Uno studioso come Asor Rosa, che si definiva un “critico marxista e fortemente politicizzato” che nel “confronto con la ‘scuola stilistica italiana’ (Contini, Segre, Corti)” si è orientato “sempre di più verso una considerazione intrinsecamente autonoma (non però autosufficiente né «formalistica») del fatto letterario” (Storia europea della letteratura italiana, Einaudi, 2009), dinanzi alla catastrofe politico-culturale degli ultimi decenni inviterebbe a recuperare quell’attitudine, di ascendenza rinascimentale, che consiste nel “guardare con acuto interesse le cose”, per scovarvi contrasti, antinomie (ivi, p. 460). Solo così è possibile “vivere, sopravvivere, comunicare”, come, secondo Asor Rosa, insegna il Segretario fiorentino.
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Asor, nome gentile (il suo retrogrado
è il più bel fiore)
non ama il privatismo in poesia.
Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia
producesse un quid simile o un’affine
sostanza, il che purtroppo non accade.
La poesia non è fatta per nessuno,
non per altri e nemmeno per chi la scrive.
Perché nasce? Non nasce affatto e dunque
non è mai nata. Sta come una pietra
o un granello di sabbia. Finirà
con tutto il resto. Se sia tardi o presto
lo dirà l’escatologo, il funesto
mistagogo che è nato a un solo parto
col tempo – e lo detesta.
(E. Montale in Diario del ‘72)
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