Ritratto di uno statista ancora da scoprire
Aldo Moro, il mite rivoluzionario che aprì la finestra al vento del ‘68
L’unicità di Moro nella storia della DC sta proprio nell’aver saputo intendere la voce del cambiamento, il radicale mutamento storico che emergeva in quegli anni. Egli rimaneva uomo della Dc (e in questo senso uomo di centro) proprio perché osava proporre alla Dc di ascoltare il linguaggio della novità civile, per poter divenire «alternativa a se stessa». Moro vede il messaggio del ’68 come una nuova connessione tra ideale e politico, come un rinnovamento spirituale e popolare della politica e delle stesse istituzioni.
Il passo sopra riportato, che è di un testimone lucido e autorevole del suo tempo come Baget Bozzo, rende pienamente ragione della misura in virtù della quale Aldo Moro è da considerarsi, sin dai suoi esordi di studioso e uomo politico, un attento interprete, prima che della vita istituzionale, di quella politica e sociale: è un brano scelto non casualmente per introdurre la presente riflessione , il cui scopo è quello di evidenziare come, al di là delle contingenze politiche, l’ispirazione politica dello statista democristiano sia stata coerente con la sua formazione intellettuale. La sua cifra di statista e uomo politico è stata caratterizzata da una costante apertura e dal confronto serrato tra principi ideali – in qualche misura sovrastorici – e la realtà secolare, che, per svariati versi, gli si parava innanzi in guisa conflittuale.
Queste affermazioni sono da considerarsi vere non solo rispetto alla così difficile transizione dal fascismo alla democrazia, quand’anche per l’intero secondo dopoguerra, fino alla trasformazione sociale di cui il ’68 è, al tempo stesso, contemporaneamente, motore e sintomo, su cui il presente articolo vuole focalizzarsi. È in occasione delle trasformazioni delle società di capitalismo avanzato della fine degli anni 60 che il leader democristiano sollecita i suoi compagni di partito a prendere in considerazione un sostanziale cambio di marcia, “ricostruendo” il tessuto morale, la tensione ideale prima della semplice realtà istituzionale di un partito, la Democrazia cristiana, il cui compito, nel delicato frangente determinato dal ‘68, sarebbe dovuto consistere nell’essere all’altezza dei cambiamenti.
Moro e la formazione
Tutto il suo cammino accademico e politico è un continuo rincorrere la centralità dell’umano, della persona, tema che apparteneva alla concezione cristiana della vita ma anche della filosofia razionalistica, si pensi a Kant e al suo “ rispetta l’uomo come fine e non come mezzo”. Egli in un editoriale del Popolo del 13 settembre 1946 scrive dell’ «uomo sociale» e di come «costruire il nuovo Stato sulla base incrollabile della persona con tutte le sue risorse morali e di dare alla vita politica un criterio di misura che ne assicuri costantemente il valore umano». Anche in questo scritto, Moro rincorre l’umano, e lo fa da par suo, chiarendo che solo condannando ogni «statolatria, ogni illimitato potere attribuito alla società organizzata, ogni coattiva limitazione delle visuali e delle naturali espansioni della vita umana, che si rafforza l’autorità dello Stato, se ne interiorizza, per quanto è possibile, il potere vincolante, se ne nobilitano e rendono efficaci le funzioni».
Descrivere la figura complessa di Moro, non è cosa semplice, fin da giovane studioso cercò di interrogarsi sull’importanza della persona rispetto allo Stato, inteso come fondamento essenziale per la conquista cristiana del mondo, e così da giurista si proietta a studiare le ragioni del superamento dello Stato totale, che potrà avvenire solo da un rinnovamento etico e dalla critica della riduzione del diritto a forza. Per troppo tempo si è raccontato di Moro iniziando dalla sua tragica fine, come se non ci fosse un presupposto a rappresentare il pensiero e la politica, e soprattutto le idee di un esponente politico di primissimo piano nel panorama della Repubblica. Questo contributo vuole cercare di rappresentare la complessità della figura morotea, che è legata indissolubilmente alla storia del Novecento. Il passaggio dalla cronaca alla riflessione storica e culturale non è stata una cosa semplicissima in questi anni, il quadro tragico dei cinquantacinque giorni ha per lungo tempo preso il sopravvento sulla statura morale e culturale. Moro docente, fin da giovane, ha tentato una riflessione sul diritto come un continuo cercare una dimensione sociale con lo sguardo alla persona e alle sue relazioni, ed è la sua formazione che sancirà anche il prosieguo dell’attività politica.
Il senatore e docente universitario Roberto Ruffilli, trucidato dalle Brigate rosse, sottolinea che la formazione di Moro – come dimostrano le Lezioni degli anni 40 – è influenzata da un neo-tomismo di marca positivistica, oltre che dallo storicismo vichiano, tracciando in modo netto nella formazione del futuro segretario della Dc la grande lezione montiniana della “spinta al dialogo con il mondo moderno”. Proprio la lezione del futuro Papa Paolo VI accompagnerà la seconda generazione dei cattolici come Moro all’altare della politica come vocazione. Papa Montini non gli farà mai mancare il supporto ideale e culturale. Moro attraverso i suoi studi di filosofia del diritto, scriverà di umanesimo e Stato, che non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona. È significativo a tal proposito il suo intervento all’Assemblea Costituente del 14 marzo del 1947: «Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale».
Da giovane componente della Costituente a leader del partito cattolico
Nel discorso che Moro tenne al Consiglio Nazionale del suo partito nel 1961 c’è la grande attenzione per le masse :«Si comprende bene, perché, pur attenti come siamo ad ogni evoluzione democratica, noi guardiamo con particolare attenzione là dove sono masse di popolo e di lavoratori, là dove sono obiettivamente idealità ed aspirazioni che riguardano l’avvenire della società, là dove si compie uno sforzo che si spera possa inserirsi costruttivamente, completando ed approfondendo, nel complesso dei principi e dei valori della democrazia ancorata alla tutela integrale della libertà politica e della dignità umana». Il 16 marzo del 1959 diventa segretario politico della Democrazia Cristiana . È un uomo politicamente moderato, un costruttore di equilibri, un tessitore instancabile, capace di coniugare le differenze, senza avere l’ansia di apparire. Viene considerato un “ uomo nuovo” e allo stesso tempo, lontano dalle logiche correntizie che inaspriscono i rapporti tra il nuovo campo dei dorotei e il raggruppamento di Iniziativa democratica che fa capo a Fanfani. Moro diventa segretario che non ha ancora compiuto 43 anni.
Il suo storico capo ufficio stampa, Corrado Guerzoni, che gli rimane accanto fino alla sua tragica morte con lucidità descrive la candidatura a segretario nel 1959: fu chiamato, allora, Moro, dicevamo, un uomo che avrebbe dovuto svolgere un ruolo, transitorio, di mediazione tra i belligeranti. Nessuno pensava che sarebbe stato un leader, che ne avesse le caratteristiche, nessuno lo riteneva un uomo d’azione come lo era stato fino a poco prima Fanfani; lo si considerava, lo ripetiamo, un innocuo uomo di riflessione, di ponderazione, utile per abbassare la temperatura, per preparare un congresso. Nel corso degli anni si dimostrerà uomo di riflessione, ma dirigente preoccupato per la dimensione pura della politica, intesa come un processo in divenire, non solo di astratti teoremi, ma di attenzione dell’agire politico. Il più «degasperiano dei dossettiani» già dal discorso di insediamento del VII congresso di Firenze, tenterà, nonostante il complicato rapporto con una parte delle gerarchie ecclesiastiche che avversano sin da subito il disegno moroteo, di tenere insieme il difficile equilibrio tra le correnti e il tentativo di scavare nella possibilità di una piena disponibilità del mondo socialista. Il nuovo segretario cercherà di rinsaldare gli equilibri interni, e sul piano esterno di valorizzare i temi sociali e lo Stato come “regolatore” di un rinnovato processo di sviluppo. Sin dagli anni 60 intuisce che la democrazia dei partiti, organizzata così com’era non avrebbe retto oltre l’urto di una società che chiedeva partecipazione, ma soprattutto, la trasformazione dell’esistente.
Moro «pedagogo della democrazia»
Dopo mesi di silenzio nell’autunno del 1968, con un discorso che non è eccessivo definire storico, tenuto al Consiglio Nazionale del 21 novembre, chiarisce i termini della sua idea di politica: «Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale e al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto del mondo di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia». Moro intuisce l’evoluzione di una società che sta mutando in modo perentorio, e si accorge che il suo partito si riduce a gestire l’esistente, mentre la sua azione culturale e politica chiede una «significativa prospettiva di integrazione umana».
Moro e i cinquantacinque giorni.
Il 9 maggio del 1978 si chiude la stagione della Repubblica dei partiti. Si chiude anzitempo la storia repubblicana dei grandi partiti di massa, il dopo è solo una rincorsa alla resistenza. Nell’intervento al consiglio nazionale democristiano, del 18 gennaio del 1969, Moro parla di distacco tra società civile e società politica, di una certa crisi dei partiti, e invita il suo partito ad aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati, per farvi entrare il vento che soffia nella vita, intorno a noi. Per tutta la vita, Moro si spese per costruire l’unità della Democrazia cristiana, per lui era condizione fondamentale nel rapporto con il Pci per dare vita al governo di solidarietà nazionale.
Unità e difesa della Dc.
Con il discorso del 9 marzo del 1977 («non ci faremo processare sulle piazze»), Moro difende il ministro Gui da una giustizia sommaria, ma soprattutto rivendica con orgoglio il ruolo storico della Dc. Il lascito di Moro è nella sua costante preoccupazione per l’umano, e per la continua conciliazione delle masse con le istituzioni repubblicane.
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