Per ricordare Boris Pahor, scomparso a 108 anni, gli cedo subito la parola e trascrivo un brano che incontriamo all’inizio del suo capolavoro, Necropoli, cronaca minuziosa, al tempo stesso fedele e di straordinaria intensità lirica, dell’esperienza in un campo di concentramento nazista. Lo scrittore torna al campo 50 anni dopo e ne ripercorre i gradini, che allora gli sembravano più ripidi, con “l’alito del nulla che li circonda”: “A qualcuno dotato di una sbrigliata immaginazione adesso potrebbe venire in mente il burattino di legno di Collodi, anche lui investito dalle fiamme, ma al quale il suo benevolo creatore sostituisce la parte offesa; nel nostro processo di cremazione, invece, nessuno pensava ai pezzi di ricambio.

D’accordo, l’immagine di Pinocchio è quella di un pupazzo che qui non ha alcun diritto di cittadinanza; presto o tardi però lo dovremo trovare un nuovo Collodi che racconti ai bambini la storia del nostro passato. Ma chi sarà in grado di avvicinarsi al cuore infantile senza ferirlo con lo spettacolo del male, e mettendolo al tempo stesso al riparo dai pericoli, dalle tentazioni del futuro?” Dunque: come raccontare ai bambini, alle nuove generazioni quell’orrore, allo scopo di metterle in guardia, senza però nulla concedere all’orrore stesso rappresentandolo, senza offendere la loro sensibilità disarmata? Necropoli, uscito nel 1967, tradotto da noi solo nel 1997 e poi pubblicato da Fazi nel 2008 con una magistrale introduzione di Claudio Magris, è uno dei grandi libri della letteratura dello sterminio, accanto a Se questo è un uomo di Primo Levi, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Arcipelago Gulag di Alexander Solzenicyn, La specie umana di Robert Antelme, Vita e destino di Vasilij Grossman.

Nato a Trieste da famiglia slovena nel 1913 subisce quasi subito la violenza della discriminazione fascista verso la minoranza slovena: l’incendio della Casa del Popolo nel 1920, l’imposizione dell’italiano come unica lingua a scuola, lo squadrismo e poi ogni sorta di vessazione e sopruso (l’intera sua opera ne è una testimonianza). Prima antifascista nella clandestinità (scrivendo innumerevoli articoli), si ritroverà soldato in Libia nell’esercito regio, poi dopo l’8 settembre partigiano, viene arrestato e torturato dalla Gestapo, e dopo una sosta a Dachau smistato in altri Lager. Dopo la guerra riprende attivamente la sua attività intellettuale e giornalistica, muovendosi nell’ambiente sloveno di ispirazione cattolica. Nel 1948 l’esordio letterario con una raccolta di prose brevi, cui seguiranno molti romanzi e memoir, successivamente l’insegnamento della letteratura slovena e italiana nelle scuole e un impegno culturale sempre in prima linea a difesa dei diritti delle minoranze.

Come Primo Levi si sentirà sempre un sopravvissuto, dunque paradossalmente un “privilegiato”, con i relativi sensi di colpa. Tanto che dirà che per essere davvero vicino al suo compagno Ivo, ucciso nel Lager, dovrebbe privarsi di ogni comodità: allora forse Ivo “smetterebbe di essere invisibile e non si risentirebbe del fatto che io frequenti la marina di Trieste…”. Anche questa è una involontaria propedeutica alla solidarietà: chissà che per essere prossimi agli sventurati anche noi non si debba per un momento “infilare gli zoccoli della miseria” e rinunciare a tutti gli agi. Pahor non intende risanare le ferite: anzi devono restare indelebili, affinchè la “dannazione” non scompaia nell’oblio. Né vuole riassorbire quegli eventi “nel divenire della natura”, quasi per renderli accettabili. Eppure in qualche modo quegli eventi rientrano in un ciclo della natura che risulta per noi distante e incomprensibile, appartengono a una totalità imperscrutabile di cui la Storia umana è solo un frammento (il che non significa essere indulgenti verso il male).

Nella sua mirabile introduzione, Claudio Magris osserva che Pahor non esce dall’inferno del Lager “umanamente mutilato né spento”. Piuttosto ci colpisce la sua assoluta integrità ed energia vitale: “non ha permesso che quella realtà deprimesse la vitalità, il gusto sensuale, il piacere intellettuale, la gioia di vivere e la libertà di giudizio”. Questo mi sembra il passaggio decisivo e potrebbe avvicinare Pahor a Isaac Bashevis Singer. Non è vero che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie, come ammonì perentoriamente Adorno. L’unica risposta ad Auschwitz, e al culto della morte dei totalitarismi è il mondo brulicante di storie e fitto di umanità dei racconti yiddish di Singer, ed è la narrazione di Pahor, dove accanto al racconto della ferocia ad un tratto irrompe il sorriso di un bambino, che con il muso schiacciato contro il vetro di una finestra si gode il passaggio della schiera di prigionieri, come di “buffe figure da circoi”. Così commenta lo scrittore: “No, il suo sorriso non era ancora maligno: era soltanto anacronistico”.

Pahor è stato a volte trascinato nella polemica sulle foibe, e accusato di minimizzarne la portata di fronte ai crimini fascisti. A me sembra invece che lo scrittore sloveno conservi sempre una equanime vocazione antitotalitaria, tanto che per le sue critiche al regime di Tito (nella rivista che diresse, “Zaliv”, ospitò contributi di vari oppositori) gli fu vietato l’accesso in Jugoslavia. L’intera sua opera è una apologia non tanto e solo della popolazione slovena, sempre emarginata e umiliata, ma della figura dell’escluso, dell’oppresso e dell’invisibile, dello “straniero”. In essa convivono una armonia con lo scorrere indifferente dell’esistenza, un sentimento della nostra immensa fragilità e la fraterna assistenza ai “poveri sudici corpi” dei suoi compagni, da lavare e seppellire. L’epica della realtà genera qui, come in Tolstoj, una pietas legata al nostro destino e alla comune “certezza di morire” degli esseri umani.

Nel Vangelo secondo Matteo Gesù spiega ai discepoli: “Non capite che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a finire nella fogna”. Un brano che andrebbe meditato ogni volta che qualcuno si impegna a raccontare gli orrori della Storia. È possibile rappresentare il male – anche con precisione impassibile da entomologo – senza esserne infettati, e anzi riuscire poi a liberarsene lasciando che esca da noi? Forse è possibile farlo solo attraverso la scrittura, attraverso una qualità “morale” della scrittura, attraverso una parola che come quella di Pahor non censura nulla – neanche la nostra parte più repellente – ma che non dimentica mai tutto ciò che dentro il cuore umano resiste al male. Quando il compagno di Lager André, anche lui sopravvissuto, scrive che bisognerebbe annientare tutti i tedeschi, la stirpe maledetta che ha prodotto i Lager di sterminio, Pahor replica: “Hai torto perché, senza accorgertene, sei influenzato dal male che ti ha contagiato”.