Se la grandezza di un leader si misura anche con la qualità della classe dirigente che egli stesso ha sfornato esercitando il potere, allora la statura di Ciriaco De Mita è di sicuro annoverabile tra le personalità repubblicane con più elevate capacità, se non di governare, di promuovere un ceto politico omogeneo. Nella discrezione assoluta che accompagna le scelte di chi decide sulle carriere e le fortune dei seguaci, egli non ha imposto staff del tutto infidi e consiglieri in gran parte inaffidabili. Ha conferito i gradi a professori (tra i quali Prodi e Mattarella) che poi si confermeranno in possesso delle attitudini che li svelano come i pochi statisti emersi nella decadente Seconda Repubblica.
E proprio sulla selezione delle classi dirigenti, tema politico per eccellenza che si riverbera sul governo delle grandi organizzazioni, si consuma il divorzio di De Mita con il nascente Pd. In nome della sua politica spettacolo, che esigeva le prime rudimentali prove di “rottamazione”, Veltroni preferì rimuovere il vecchio “intellettuale della Magna Grecia” e candidare al suo posto una giovane che si era appena laureata proprio ricostruendo il linguaggio politico di De Mita. Nel tempo della politica che sta confondendosi con la comunicazione, in un cedimento alla rappresentazione dell’apparenza e del vuoto, il discorso pubblico del leader di Nusco tendeva ad autorappresentarsi come l’espressione di una politica che si nutriva ancora di pensiero e, dopo un tre sette, civettava con letture sofisticate.
Quando i giornali gli chiesero che libro stesse leggendo, De Mita indicò il volume monumentale di Carlo Galli Genealogia della politica (Il Mulino), ovvero centinaia di pagine complesse e ricche di riferimenti filologici, dedicate al recupero dei fili concettuali della dottrina politico-giuridica di Carl Schmitt. Che per De Mita la politica fosse la traduzione del pensiero in decisioni lo si ricavò anche da una delle sue ultime imprese, il duello televisivo con Renzi sui temi del referendum costituzionale del 2016 nel corso del quale le preoccupazioni della dottrina giuridica furono però inghiottite da un’onda populista e sovranista che divenne egemone nel 2018. Nella sua stagione più ricca, De Mita ha osato sfidare (lo fece solo Fanfani prima di lui e l’aretino fu, non a caso, impallinato) il vero tabù dello scudo crociato: la coincidenza delle cariche di segretario di partito e di Presidente del Consiglio. Un partito confederale, dominato dai signori delle tessere e cogestito dai registi delle cordate, insomma un arcipelago di sensibilità e culture tra le più eterogenee, non poteva accettare che le stesse mani muovessero i fili del potere a Piazza del Gesù e a Palazzo Chigi.
Anche per De Mita il cumulo delle funzioni durò poco. Tardo censore del sogno plebiscitario del giovane capo fiorentino, nonché gagliardo avversario delle esibizioni craxiane di decisionismo, De Mita non era certo un politico che negava la saldezza del potere, la necessità di una personalizzazione del monopolio della decisione. Se la rivendicazione di stampo decisionista in Craxi era censurata e demonizzata dai media, la stessa pratica personalistica nelle mani di De Mita veniva ritenuta condizione normale. La cosiddetta “personalizzazione della leadership” non è stata mai in ombra nell’esperienza dei partiti che però la conciliavano con tempi, riti, simbologie collettive. Tutti i grandi soggetti politici si giovavano di un centro di comando forte e autorevole. La differenza non poggia sulla visibilità del leader, ma sulla cultura della politica, sul ruolo dei gruppi dirigenti e sulla funzione della macchina organizzativa come veicolo aperto al coinvolgimento delle masse.
Per “de-mitizzare Craxi”, il suo alleato e competitore più accanito, anche il leader della Dc perseguiva la leadership forte e ciò esigeva la convergenza tra partito e governo. Negli anni del declino della Dc, i maggiorenti scudocrociati chiusero un occhio dinanzi alla vistosa centralizzazione del potere e alla gestione faziosa delle risorse di sottogoverno. A pericolo ormai scampato, con ingannevoli segnali di ripresa elettorale, le spinte centrifughe si moltiplicarono e, in un anno solo, De Mita fu oggetto di una guerra di movimento a seguito della quale perse repentinamente segreteria e guida del governo. Avvertì anche lui l’usura delle grandi macchine di partito, dopo essersi speso nella difesa a oltranza del vecchio sistema (negli anni ’70, ai primi scandali, reagì con nettezza: il finanziamento delle aziende pubbliche ai partiti è un fatto stabile, un “obbligo sub-istituzionale”, disse con un tono provocatorio, e invece “improvvisamente si scopre che l’Enel finanzia i partiti”). Negli anni ’80 lanciò però il mito del nuovo, della società civile, degli esterni, dei professori, invocati come un elemento di rigenerazione magica necessario per una politica troppo in sofferenza.
Gli inni alla società che sopravanzava la lenta politica, l’appello ad una incisiva presenza rivolto alle associazioni collaterali e alle forze della cultura, il legame ambiguo con la grande impresa e i rapporti con l’associazionismo cattolico di base, gli valsero l’appoggio di “Repubblica”, anche se al conteggio delle schede il soccorso di Scalfari in chiave antipartitocratica si rivelò ben poco risolutivo. La Dc nel 1983 precipitò nel suo minimo storico, dovette cedere Palazzo Chigi e al suo interno affiorarono doppie fedeltà, sospese tra Maritain e Don Giussani, con un’anima del partito più incline al dialogo con il Pci e un’altra protesa al nesso preferenziale con i socialisti. Percependo un certo declino in atto del Pci che perdeva nei voti il rango di avversario principale, De Mita impegnò le sue forze per competere alla pari con Craxi sul piano della distribuzione delle risorse di influenza. Liquidato, insieme al leader socialista, l’incomodo temporaneo rappresentato da Spadolini, inopinatamente portato da Pertini a Palazzo Chigi (il Pri si avvalse di una piccola onda favorevole raccogliendo, qualche anno dopo, oltre il 5% dei voti), De Mita cercò di utilizzare ora il richiamo allo schema bipolare, ora l’ossatura consociativa per dividere tra loro Pci e Psi e sfruttare, in ogni caso, i comunisti come fattore interveniente utile per ridimensionare la sfida del garofano.
Nacque in tale ottica la prospettiva di un rinnovamento della politica inseguito attraverso la manutenzione istituzionale (se non con le esche di governi “diversi”). Sin dagli anni ’60, De Mita ha dialogato con Ingrao, per la messa a punto operativa della morotea “strategia dell’attenzione”, che prevedeva il coinvolgimento del Pci nel governo del Parlamento, nella gestione dei tempi delle commissioni. Negli anni ’80 il tema della riforma delle istituzioni divenne per lui anche uno strumento utile a recuperare, almeno in parte, il Pci nel gioco politico e quindi arginare la lucrosa centralità sistemica del Psi. La mossa della progettazione delle grandi riforme però non mostrò una particolare efficacia e la Commissione Bozzi naufragò. Una parte della Dc filtrava con il Pci, che stava approdando, dopo il ripudio del consociativismo, alla logica bipolare avversata da Craxi (vi scorgeva dietro le mosse di De Mita che si avvaleva del “traffico referendario” e del “confuso vagabondaggio comunista”). L’altra, con Andreotti, ammoniva sui rischi di un certo nuovismo costituzionale agitato con leggerezza.
All’anno terribile per De Mita, il 1988, che lo spogliò di ogni potere, seguirono l’anno cupo per il Pci, il 1989, che indusse presto Botteghe Oscure allo scioglimento, e il triennio nero 1991-1993 che, con i due referendum di Segni e le manette di Tangentopoli, decapitò il Psi. Avrebbe potuto sopravvivere la Prima Repubblica con il suo progetto di economia mista e controllo di partito? Una speranza, almeno per guadagnare un supplemento di vita, poteva trovarla in un passaggio consociativo, che però il verbo nuovista del bipolarismo rendeva improbabile. Lo stesso De Mita aveva vissuto la contraddizione del tempo antipolitico che, non a caso, aveva trovato l’incubazione nel Veneto bianco senza che lui capisse il senso della comparsa della Liga. Nel 1988 aveva opposto resistenza contro “gli eccessi della polemica contro la partitocrazia”. Ma il virus antipartitocratico si diffuse ovunque con l’età della videopolitica ormai alle porte. Schegge del suo stesso mondo (quello della “primavera” di Orlando, della “repubblica dei cittadini” di Scoppola, dei referendum antipartitocratici di Segni) contribuirono in maniera rilevante all’antipolitica trionfante.
E così quando la nuova Bicamerale, inizialmente presieduta proprio da De Mita e (dopo le sue dimissioni per un avviso di garanzia caduto sul fratello!) infine gestita da Nilde Iotti, si apprestava all’approvazione definitiva del progetto organico di revisione costituzionale, all’insegna di un impianto neoparlamentare razionalizzato, ad affossarlo intervenne il “nuovismo”. Il Pds, i professori un tempo promossi da De Mita e raccolti attorno ai 450 “pattisti” di Segni, promotore di “un voto contro i partiti”, contrapposero la santificata via referendaria al parlamento delegittimato per le inchieste giudiziarie. L’ultima occasione per la salvezza della Prima Repubblica venne malamente sciupata e le antiche leve culturali di De Mita giocarono un ruolo negativo nel culto della società civile opposta al potere dei partiti. Negli anni della Seconda Repubblica la razionalità politica cartesiana di De Mita non ha trovato pace, costretta a spostamenti continui, con rotture, ricomposizioni, per afferrare qualche inserimento occasionale nell’età dello spettacolo della comunicazione. Per una personalità che riteneva che la politica fosse anzitutto “ragionamento” il futuro era ormai alle spalle.