Colin Powell è morto a 84 anni. Sembra che sia morto per le conseguenze del Covid, anche se era vaccinato. È stato un grande personaggio degli Stati Uniti a cavallo dei due secoli. È il primo nero ad entrare a far parte dell’establishment. Il primo nero a comandare l’esercito. Il primo nero ad assumere l’incarico di segretario di Stato, che è il ruolo, all’incirca, che coincide con il ruolo del nostro primo ministro. Aveva un’anima progressista e non era un guerrafondaio, io penso che fosse una persona anche molto onesta, ma è passato alla storia come l’imbroglione che mostrò al mondo false prove di una presunta arma chimica nelle mani di Saddam Hussein, nel 2002, la famosa provetta che poi scatenò una delle guerre più nefaste della storia recente americana.

Powell era un nero di Harlem. Ed era nato in tempi di razzismo vero, duro. Probabilmente il grado del razzismo a New York era leggermente inferiore rispetto agli stati del Sud. Ma le regole della segregazione erano serie anche lì. Lui viveva nel quartiere degli afroamericani, il più vivace di tutti gli Stati Uniti. Quello che aveva visto crescere l’arte dei neri, la poesia dei vecchi bardi come Langston Hughes, James Weldon Johnson, Countee Cullen, l’allegria dell’ Harlem Renaissance. Era nato più o meno alla fine di quel periodo di fantasia e creatività impetuosa, nell’aprile del 1937, ma ne aveva subìto l’influenza. I suoi genitori erano immigrati giamaicani, lui – diciamo così – era un immigrato di seconda generazione, quelli che nella pur rude America degli anni 30 avevano il diritto a godere del famigerato Ius Soli (e ancora hanno questo diritto). Era povera la famiglia di Colin e lui un giorno, quando aveva 16 anni, andò dalla madre e le disse che avrebbe voluto iscriversi alla New York University. Era molto studioso, aveva ottimi voti. La madre lo guardò con sguardo triste e severo, gli diede una banconota da 20 dollari, che aveva preso dal salvadanaio, e gli disse di andare a fare l’iscrizione al City College. La Nyu non è per noi, ragazzo, è per i signorini bianchi.

Colin ha vissuto da bravo ragazzo, ma abituato alla selezione di ferro dei bad boys. Sapeva fare a sassate, difendersi. Se volevi sopravvivere a Harlem, negli anni della guerra, dovevi imparare anche a tirare i pugni. Colin si trovò benissimo al College e si laureò a pieni voti. Poi fece la scelta forse più semplice per un “negro” povero e studioso: si arruolò e tentò la carriera militare. Gli riuscì benissimo. Scalò in fretta le gerarchie. Nel ‘68, a trent’anni, era già colonnello e fu mandato in Vietnam. Nella sua autobiografia c’è un racconto esilarante della guerra. È un episodio del ‘69, mi pare, e Powell dice che quel giorno capì che la guerra era persa. Non perché mancassero armi, o potenza di fuoco, o uomini, o occasioni militari. Per la semplice ragione che la guerra era diventata burocrazia. Sì, certo, burocrazia molto sanguinosa, ma demenziale e ridicola come tutte le burocrazie. Racconta Powell di essere andato a ispezionare un avamposto americano nella giungla. Guidato da un capitano e presidiato da qualche centinaio di uomini. Powell fece notare al capitano che non gli sembrava collocato nel posto più ragionevole: era proprio ai piedi di una parete boscosa dalla quale poteva piombare in qualunque momento un attacco dei Vietcong.

Il capitano gli disse che il rischio era stato valutato, ma era inevitabile. Perché?, chiese Powell? Perché questo avamposto ci serve a difendere quella pista degli elicotteri che sta laggiù a poche decine di metri… Powell chiese per quale motivo quella pista di atterraggio fosse così importante, e il capitano rispose che era importantissima perché solo con gli elicotteri era possibile rifornire l’avamposto di viveri e di armi… A cinquant’anni appena compiuti Powell diventò capo di Stato maggiore. Un nero al vertice dell’esercito non si era mai visto. Fu Reagan a mettercelo. È stata forse, da un punto di vista simbolico, la più clamorosa rivoluzione antirazzista della storia americana. Tenete conto che fino alla guerra di Corea, nel 1954, l’esercito americano era ancora “segregato”. Cioè esistevano i battaglioni neri e quelli bianchi. I neri poveri potevano anche servire in un battaglione bianco, ma solo come soldati semplici. Il principio era che mai nessun nero poteva avere il comando su un bianco. Poteva solo obbedire. E questo succedeva ai tempi quasi socialisti di Roosevelt.

Un giorno – racconta sempre Powell nella sua autobiografia – negli anni ‘70, quando lui era già un generale dell’esercito americano, autorevolissimo e abbastanza famoso, si fermò, durante un viaggio, a prendere un hamburger in una friggitoria. Non era in divisa. Jeans e maglietta. Si avvicinò al banco e il padrone, gentilmente, lo pregò di uscire e di accomodarsi sul retro. I negri, spiegò senza arroganza, li servivano sul retro. Powell non fece una piega e mangiò il suo hamburger allo sportello dei negri. Non so se questo episodio testimonia la poca combattività, la rassegnazione che sicuramente erano caratteristiche di Powell, o invece la sua umiltà, la capacità di non farsi forte col potere o col distintivo. In fondo aveva reagito nello stesso modo, con un sorriso, e adattandosi, quel giorno che la mamma gli aveva dato 20 dollari e gli aveva detto di scordarsi l’Università dei ricchi.

Nel 1991, quando Bush padre scatenò la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, Powell era il capo di Stato maggiore. Il ministro della difesa era Dick Cheney. Powell e Cheney rappresentavano due visioni opposte, e il vecchio Bush mediava. Un giorno Powell entrò nell’ufficio di Cheney, convocato da lui, e si sentì proporre l’idea di chiudere in fretta la guerra con una azione di guerra rapidissima. Disse Cheney: «Usiamo delle piccole bombe atomiche tattiche e facciamo piazza pulita senza lasciare neppure un cadavere americano». Powell racconta di non avere neppure risposto. Di aver girato i tacchi ed essere uscito dalla stanza, indignato. Quella volta però non restò in silenzio, pare. Ebbe un ripensamento mentre stava uscendo, tornò indietro, si affacciò di nuovo alla porta del ministro e sibilò, furioso, solo due parole: “Fuck You”. Che vuol dire vaffanculo.

Poi Powell entrò in politica a pieno titolo. Si schierò coi repubblicani anche se le sue idee erano idee democratiche. Parlò alla Convention repubblicana di San Diego, nel ‘96, per sostenere Bob Dole (che affrontava Clinton) ma dichiarandosi pro aborto e indignando parecchio i delegati. Fu un gran discorso. Powell aveva una visione. Quattro anni dopo accettò di diventare il primo segretario di Stato nero, con Bush figlio. E lì si trovò a dover gestire la follia della seconda guerra in Iraq, e commise la sciocchezza assoluta di mostrare la provetta falsa che accusava Saddam di un delitto che Saddam non aveva commesso.

Powell, quando Barack Obama si candidò alla presidenza, disse che era con lui. Non poteva non sostenere un presidente nero. E otto anni dopo, nello scontro tra Hillary Clinton e Trump si schierò apertamente con Hillary. Anche George W. Bush si schierò con Hillary. Quant’è difficile capire i gesti e l’anima di Powell. Se li capisci davvero hai capito tutto dell’America.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.