Un libro collettaneo a cura di Zamboni la racconta
Chi era Cristina Campo, la riscoperta della poetessa tra il visibile e l’invisibile
Questo libro collettaneo – Cristina Campo, Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (Mimesis), a cura di Chiara Zamboni -, che raccoglie gli atti di un convegno su Cristina Campo, è fondamentale come introduzione al suo pensiero. Libro denso, ricco di suggestioni, nel quale i contributi più belli sono quelli meno accademici (lei non era per niente accademica!), come quello di Antonietta Potente, che trattano Campo come una “amica”, come una compagna preziosa di esercizi spirituali, dialogando fraternamente con lei.
Ora, proprio pensando a questi contributi, che muovono da una prossimità alla vita e alla esperienza di Campo, si corre fatalmente un rischio. Si trattiene cioè il nucleo per noi più fecondo del suo pensiero prescindendo da tutto quello che lo ha generato, e cioè dal “duro esercizio” (Monica Farnetti), fatto di ascesi e iper-concentrazione, oblio e svuotamento di sé, estrema solitudine, fine degli attaccamenti, indifferenza alla morte, purificazione del nostro immaginario parassitario, eliminazione di desideri e fantasie. A ciò si aggiunga la disposizione a perdere qualcosa che per noi vale molto, come mostra la favola di Cenerentola che non si cura di perdere lo scarpino, per potersi salvare (nel saggio “Una rosa”, commentato da Wanda Tommasi). Non è poco, se consideriamo che tutte queste cose sono del tutto estranee al nostro attuale orizzonte di vita, saturato dai consumi, ossessionato dalla voglia di divertirsi e da un desiderio bovaristico (altro che accettare la nostra vita com’è: non ci basta mai e non vogliamo mai perdere niente!).
In queste pagine, benché utilissime come ho già detto per capire Campo, si parla forse con eccessiva disinvoltura “dell’invisibile”. Siamo sicuri che qui ed oggi sia ancora possibile una “esperienza religiosa”, nel mondo secolarizzato, del tutto immanente, e dopo i guasti prodotti dal cattolicesimo? Simone Weil – un faro imprescindibile per la Campo: si pensi solo alla intuizione di una “follia d’amore”, della grazia che sospende per un attimo la necessità, la pesanteur, l’imperio della forza, come accade nelle fiabe – riteneva di no. Personalmente ho qualche dubbio. La stessa Campo lamenta la separazione tra spirituale e corporeo, tra divino e sensibile, in tutta la modernità. Mentre nella devozione e pietà popolare – entro cui la presenza delle donne è assolutamente preponderante – , nel bacio alle icone e nella venerazione per le reliquie, così come nelle esperienze di godimento delle mistiche, si custodisce l’idea di “un’anima corporea”. Siamo ben distanti dall’astrattezza di una religione “matura” come quella protestante, che incarna l’essenza della modernità.
Ma adesso, pur con questa riserva di fondo, vorrei individuare i tre o quattro punti che mi sembrano decisivi dell’opera di Cristina Campo, avvalendomi delle pagine del libro (trascuro qui quelle, pur interessanti, dedicate alla “mistica iraniana”, per mia assoluta incompetenza). Anzitutto bisogna smontare l’immagine di una Campo esoterica, reazionaria, aristocratica, gnostico-elitaria: “Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo. Una specie di Cantico dei cantici rovesciato. Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama…”. Poi specifica che vorrebbe scriverlo nella lingua più moderna, “quasi sul ritmo di un blues”! Va bene, il suo cuore trepidava per monsignor Lefebvre e la messa in latino, ma contro una modernità omologante e impoetica. Perfino la sua idiosincrasia verso il vicino quartiere popolare di Testaccio, che lei guardava dall’alto del suo principesco Aventino, andrebbe letta in questa luce: è una insofferenza verso la massa informe asservita ai consumi del boom degli anni ‘60, a una plebe trasformata in ottusa piccola borghesia.
Il suo blues, non lontano dagli spiritual che Pasolini volle usare nel “Vangelo secondo Matteo”, era invece rivolto al popolo che abita piazze e vie, a tutti quelli che non sono amati né ascoltati. Ricordo qui per inciso il suo sostegno alla esperienza di Danilo Dolci (di cui era molto amica, anche se non viene mai citato nel libro), grande educatore e attivista non-violento, con gli emarginati e i paria della società: una esperienza non assistenzialistica ma di creazione di comunità. Ma vengo al punto che mi sembra centrale: la relazione tra visibile e invisibile. Da qualche parte Cristina Campo dice che il mondo invisibile, l’altro mondo cui alludono talismani e amuleti delle fiabe non è che questo mondo, però rivelato. Se “l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è” (Paul Klee) allora proprio l’arte diventa una via privilegiata – accanto alla mistica – per accedere a questo mondo rivelato, che poi, nelle parole della Campo, è il tappeto che – finalmente raddrizzato – ci mostra il proprio disegno, e dunque l’arabesco del nostro destino.
Solo allora, decifrando il disegno del tappeto ognuno di noi potrà incontrare, come il viandante, “una melodia che è sua e di nessun altro, che lo cerca fin dalla nascita e da prima di tutti i secoli”. Lei stessa attraversa la vita alla continua ricerca della propria vocazione, di cui parla nelle lettere all’amica Mita (Margherita Pieracci) e in tanti luoghi della sua opera: una ricerca che implica attenzione, capacità di attesa, passività ricettiva, riscoperta dello stupore di fronte alla realtà. Tutto ciò si riversa nella sua purissima scrittura, in una prosa che va costantemente verso la poesia e verso la preghiera, assorta e aperta al mondo, alle sue più minute sfumature:”il bambino che ascolta un vecchio rievocare batte le ciglia con ipnotica lentezza”, come un insetto in una metamorfosi. Il “duro lavoro” dell’ascesi e dell’uscita dal mondo (avrebbe detto il suo compagno Zolla, tacciato da Maria Zambrano di “dogmatismo”) si trasforma un po’ misteriosamente in gioia, sorriso, “tremore leggero”, tenerezza, libertà.
Su questa trasformazione alchemica si interroga Laura Boella, seguendo una suggestione di Maria Zambrano (che ci dà un involontario ritratto dell’amica Cristina Campo): centrale è la metafora del fuoco, della fiamma che “non si consolida né si stabilizza”(come il fiorire della vita), di ciò che nel centro della fiamma stessa rimane oscuro. “Una bellezza che non è di questo mondo”, un incompiuto ( e un incognito) che è specchio di un altrove, chiosa Laura Boella. Forse, però questo altrove pure consiste interamente nell’attimo presente. E la bellezza appartiene interamente a questo unico mondo sublunare che abitiamo, a patto però di vederlo con altri occhi, magari con l’aiuto di un amuleto.
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