Non vediamo l’ora che i nostri figli possano riprendere a viaggiare per l’Europa, come del resto stavano facendo prima della forzata interruzione dovuta alla pandemia: se ciò accadrà sarà ancora nel segno di Erasmus, al quale sarebbe auspicabile che qualcuno di loro almeno pensasse quando riceverà l’agognata borsa di studio grazie a cui potrà pagarsi il soggiorno nelle università del vecchio mondo. Del grande teologo umanista di Rotterdam dove nacque nel 1466, figlio di un prete come talvolta accadeva allora, educato dai frati agostiniani dopo la morte di entrambi i genitori a causa della peste che infuriava in quegli anni, Einaudi ha recentemente pubblicato, a cura di Silvana Seidel Menchi, le Prefazioni ai Vangeli (pp. 174, 24 euro).

Si tratta di un’opera, con testo latino a fronte, fruibile anche dai non specialisti, come il sottoscritto, i quali potranno apprezzare, se non altro, la potenza stilistica di uno scrittore unico nel suo genere, il cui capolavoro assoluto resta il celebre Elogio della follia (1511, Parigi), dedicato al sodale amico Tommaso Moro, straordinaria allegoria satirica sulla umana inclinazione ai piaceri terrestri, non calcolando i costi della “bella vita”: «Sono nata nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme né aratro. Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli, malva, squilla, lupini o fave e simili piante da poco».

I quattro appelli alla lettura del Nuovo Testamento, nonché un’introduzione al testo sacro, composizioni che vanno dal 1516 al 1522, rappresentano un monumento alla prosa cinquecentesca: nella storia della letteratura sono caposaldi essenziali perché conferiscono alla riflessione religiosa una pienezza vitale superiore al semplice intento devozionale. Hanno una dimensione retorica di notevole fascino, alla maniera di breviari spirituali, con un piglio assolutamente originale. Nel momento in cui esortano il “pio lettore”, si rivolgono in realtà a ognuno di noi chiedendo a chiunque di misurarsi direttamente con la testimonianza degli apostoli per intendere appieno il nocciolo della moderna civiltà occidentale nell’incrocio simbolico fra Gerusalemme, Atene e Roma. Tale consonanza con lo spirito della Riforma non implica alcuna svalutazione della tradizione esegetica. Un uomo da solo non è niente. Al contrario, la tensione febbrile verso l’autorità antica anima la produzione erasmiana: dagli Antibarbari, nel recupero attivo di Agostino e San Gerolamo, agli Adagia, raccolta e commento di proverbi, fino all’Enchiridion, il manuale del milite cristiano.

Stiamo parlando di un uomo che ha contribuito a edificare il pensiero moderno, soprattutto nel rapporto contrastato e irrisolto con Lutero: mentre quest’ultimo negava il libero arbitrio, affidandosi sulla scorta paolina alla grazia imperscrutabile di Dio, Erasmo considerava l’atto di volizione individuale il centro stesso della nostra dignità, mettendo sul tavolo di tale contesa insanabile l’intera posta umanistica del Rinascimento. Se la scelta che possiamo compiere fra bene e male non ha fondamento, la responsabilità nei confronti degli altri è ben poca cosa: si riduce alla semplice esecuzione del mansionario che la polis ci ha distribuito.

Per questo, aperta parentesi, Fedor Doestoevskij dirà che, fra Cristo e la Verità, lui non avrebbe mai avuto dubbi: si sarebbe sempre schierato dalla parte del Nazareno. Nel Novecento, il tempo dei totalitarismi, Dietrich Bonhoffer parlerà di “grazia a caro prezzo” proprio per smussare il radicalismo luterano: altrimenti come avrebbe potuto far parte della fallita congiura contro Hitler? A chi, fra i suoi allievi, provocatoriamente gli chiese in quale modo conciliasse cristianesimo e Resistenza, pacifismo gandhiano e militanza bellica, aveva detto che, se avesse visto sul Kurfürstendamm di Berlino un autista pazzo uccidere i passanti, il suo dovere di pastore, prima ancora che soccorrere i feriti, doveva essere quello di strappare il conducente dalla guida del mezzo. D’altro canto, un secolo prima, Alessandro Manzoni, nel finale dei Promessi Sposi, quando Renzo, di fronte a Don Rodrigo morente, vorrebbe farsi giustizia da solo, attribuisce a Fra Cristoforo la sua stessa perplessità: come dobbiamo interpretare i bubboni sparsi sul corpo del nemico? “Sarà castigo o misericordia”? I conti sono destinati a restare sempre aperti. Né potrebbe essere altrimenti, almeno in questo mondo: l’unico di cui, fino a prova contraria, disponiamo.

Torniamo quindi fiduciosi a Erasmo da Rotterdam, a cui Carlo Ossola ha dedicato negli scorsi anni alcuni preziosi medaglioni critici (Erasmo nel notturno d’Europa e Europa ritrovata. Geografia e miti del vecchio continente), ripercorrendo qualche città della sua vita randagia, da Anderlecht a Lovanio, da Torino a Venezia. Siamo di fronte a un classico utile ancora oggi. Nessuno più di lui ebbe chiaro il rischio al quale può andare incontro ogni verbalismo fine a se stesso, non solo teologico, privo del riscontro dell’esperienza. La medesima ragione lo spingeva verso i Vangeli. «Questo tipo di filosofia consiste negli affetti più che nei sillogismi, è vita più che disputa, è ispirazione più che erudizione, è un trasformarsi più che un raziocinare». Pur restando cattolico, ci metteva tuttavia in guardia contro le degenerazioni dei gruppi chiusi, specie religiosi, troppo tesi all’autoconservazione: «Tra i monaci, i quali professano la povertà cristiana e il disprezzo del mondo, temo che troverai il mondo potenziato».

E come non ammirarlo, nella sua fede appassionata, quando auspica che la lettura dei testi sacri, tradotti in volgare, possa essere appannaggio di tutti, nessuno escluso? «Vorrei che il contadino ne intonasse qualche versetto spingendo l’aratro, che il tessitore ne modulasse qualche passo manovrando le sue spole, che il viandante alleviasse il tedio del cammino con queste storie… Chi sta indietro non invidi chi è in testa; chi è in testa incoraggi chi viene dietro, non abbandoni la speranza».