Una vita e un cinema all’ultimo respiro
Chi era Jean-Luc Godard, addio al grande regista della Nouvelle vague
Jean-Luc Godard se ne è andato come ha vissuto. In maniera radicale. Libera. In Svizzera, dove viveva, è ricorso al suicidio assistito. Aveva 91 anni. La notizia della scelta del regista l’ha data il quotidiano francese Libération. Un suo amico ha spiegato: non era malato, era stanco. La vita l’ha vissuta intensamente, senza risparmiarsi. L’ha vissuta Fino all’ultimo respiro, titolo del suo primo lungometraggio, il suo primo grande successo. Film che è entrato nella storia del cinema insieme al suo regista, alla sua visionarietà polemica. Immaginatevi che cosa potesse essere Parigi negli anni Cinquanta.
In ogni angolo si sperimentava un pensiero, una filosofia, un’idea dell’arte. Un gruppo di giovani, tra cui Godard, Francois Truffaut, Jacques Rivette, Alain Resnais, Agnes Varda, si raccoglie intorno alla figura di Andrè Bazin e dà vita ai Cahiers du cinéma, come dire la Bibbia della settimana arte. Da quelle pagine parte la rivolta contro il cinema di papà. Basta con i cliché, con le frasi fatte, con gli studios, con la tradizione. Nel saggio Che cosa è il cinema? Bazin spiega che nell’immagine è contenuto un grano del reale, quel reale che il cinema di papà ha fatto sparire. Ma reale non significa naturalismo che anzi i nostri registi criticano aspramente: significa forma, montaggio, luci. È la rivoluzione attraverso il cinema. Con I quattrocento colpi di Truffaut (1960) e Fino all’ultimo respiro di Godard nasce la Nouvelle vague. Niente deve restare come prima, tutto deve cambiare. «Quando ho fatto Fino all’ultimo respiro – scrive Godard nella sua Introduzione alla vera storia del cinema – per me era il risultato di dieci anni di cinema. Fino allora avevo fatto dieci anni di cinema senza mai fare film, soltanto tentando di farne. Venivo da una grande famiglia borghese con la quale avevo rotto molto tardi ma in modo definitivo. Il che fa sì che l’unica differenza tra me e qualche mio attuale amico è che, quando vado in vacanza, non so da chi andare».
Così, nei primi anni della loro amicizia che poi si deteriora, lo ricorda Truffaut: «Non portava gli occhiali, aveva i capelli ondulati, era molto bello, di tratti molto regolari. Se si era a casa di amici, la sera, era facile che aprisse quaranta libri, guardando sempre la prima e l’ultima pagina. Era sempre molto impaziente, molto nervoso». Truffaut regala a Godard la sceneggiatura di Fino all’ultimo respiro. Poi lo scontro, l’odio, le frasi al veleno. A tal punto da dividere anche i cinefili. O si stava con Godard o con Truffaut. Il regista di film come Le petit soldat, Les carabiniers, Il disprezzo (da Moravia che fu un flop), Il bandito delle ore 11, La cinese, spara a zero contro il regista di Effetto notte. «Secondo me – scrive – c’è stata una frattura dopo I quattrocento colpi. E non so proprio come si sia prodotta. Si è fatto prendere dal cinema, e lui stesso è diventato tutto quello che detestava. A leggere i suoi articoli degli inizi e a vedere i suoi film si resta sbalorditi». E proprio su Effetto notte sentenzia: «Ciò che si spaccia agli occhi della gente per grande cinema, in realtà non è altro che piccolo cinema di provincia, al massimo piccola commedia di provincia; difatti è molto rispettato dagli americani…».
Per Godard il cinema non deve essere una macchina che mistifica, che inganna. La lettura di Marx lo spinge sempre più a chiedere al linguaggio cinematografi co la sfida di mettere in discussione il discorso dominante. Il cinema di Godard fin dall’inizio è fatto di sguardi in macchina, di una messa in gioco anche personale (contro l’autorialità borghese) e contro chi detiene il potere. Nel 1972 realizzata Crepa padrone, tutto va bene. Un titolo che se fosse proposto oggi farebbe scattare l’indignazione, la protesta, le crociate social. Allora, sulla spinta del Maggio francese, quel titolo era considerato normale, non c’era bisogno di fare tanti distinguo. Film flop ma che parla della lotta operaia, che tenta in tutti i modi di inserire il cinema in una battaglia che in tanti in quegli anni stanno combattendo. E il regista di Crepa padrone lo fa con lo strumento che meglio conosce: il cinema, la rottura, lo straniamento brechtiano, l’autore che Godard ama, legge, cita e che tanto gli assomiglia in quella volontà di cambiare il linguaggio e di stimolare il senso critico di chi guarda o legge. Non ci si adegua al mainstream, si sperimenta, si cerca, si osa, anche a costo di fallire, di collezionare insuccessi, fischi, polemiche. Godard non teme lo scontro, non teme di dare fastidio.
Forse l’ultima fase più in sintonia con il pubblico e con la critica è quella che vede i titoli come Prénom Carmen che nel 1983 vince il Leone d’oro, Je vous salue Marie (1985), Detective (1985). La sua visionarietà e la sua capacità di produrre trovano in seguito un nuovo alleato nella tv e nelle nuove tecnologie. Anche qui Godard non si rassegna al già visto: sperimenta, infastidisce, prende posizione. Come non amarlo quindi, come non preferirlo al regista che invece scriveva di amare le donne? Una delle compagne di Godard, Anne Wiasemsky, dopo essersi lasciati lo descrive come classista e narcisista. Ma una cosa è certa: è uno dei pochi registi della sua generazione che mette in scena il conflitto uomo-donna. Tanti i titoli. La donna è donna, La donna sposata, Il maschio e la femmina, Due o tre cose che so di lei. Materiali non per l’esaltazione del regista, ma per problematizzare, per capire, per non dare niente per scontato: neanche il rapporto tra i sessi. Oggi ripensando al suo cinema così estremo verrebbe la voglia di rinnegarlo, di scegliere Truffaut, il mondo sensuale de La signora della porta accanto.
Ma la sua morte, gli oltre cento fi lm che ci ha lasciati, la sua radicalità anche fastidiosa ci riportano a quella prima scelta di una contesa che era già un mondo. Sì, perché scegliere tra due registi, tra due idee di cinema, racconta un’epoca in cui non si dava niente per scontato. Un’epoca in cui attraverso il cinema e il suo linguaggio si voleva cambiare il mondo. Oggi non si vuole cambiare il cinema e neanche la realtà che ci circonda. Per questo Godard ci mancherà, perché non ci ha fatto sognare. Ci ha fatto pensare. Ci ha fatto anche disperare, sperare. E lo ha fatto con il montaggio, con le luci. Ritornano le parole del suo maestro Bazin: il cinema è realtà, ma lo è in quanto rappresentazione. Smascherare la finzione, farci vedere il punto di vista di chi osserva: non c’è lezione più valida per questo mondo dove si tende a presentare come neutre le immagini che ci arrivano attraverso tv e social. Godard spiega che non sono la verità, ma una verità. Quella di chi racconta.
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