Aveva 79 anni
Chi era Jean Paul Fitoussi, il keynesiano contro il regno del pil
“Caro Prof, ha dieci minuti per Il Riformista?” Era diventato l’incipit delle nostre telefonate. E lui sempre cordiale, disponibile, nonostante i mille impegni che aveva. Non dico che fosse nata un’amicizia tra noi, ma qualcosa che le andava vicino credo proprio di sì. Jean Paul Fitoussi, scomparso ieri all’età di 79 anni, non era uno che se la tirava. E sì che ne avrebbe avuti tutti i titoli, visto che nel campo dell’economia e delle politiche sociali era un’autorità indiscussa.
Nato a La Goulette, in Tunisia, il 19 agosto 1942, professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione, membro del Center for Capitalism and Society della Columbia University. Insomma, il gotha. Era un economista keynesiano con lo sguardo rivolto al futuro. Aveva sempre contestato la “iattura” dell’iper austerità perché riteneva che il compito della politica economica fosse quello di sostenere la domanda per assicurare la piena occupazione, ma anche di combattere la povertà e l’esclusione. Dopo aver presieduto con Joseph Stiglitz e Amartya Sen la Commissione per valutare le dimensioni del progresso e del benessere sociale dal 2007 al 2009 è stato, dal gennaio 2013, co-presidente con lo stesso Stiglitz e Martine Durand del gruppo di esperti di alto livello sulla misurazione della performance economica e del processo sociale.
In una delle nostre ultime conversazioni, gli avevo chiesto cosa conta di misurare per costruire una Europa meno squilibrata di quella esistente. La sua risposta, letta oggi, nel giorno della scomparsa, ha il segno di un testamento etico, prim’ancora che economico e politico. «Tutti lo sanno quello che dovremmo misurare. Su tutto, il capitale umano. La competenza, l’istruzione, l’efficienza nel lavoro. C’è da misurare tutti i fattori che hanno una incidenza sul capitale umano. Puntando sull’occupazione. E non ad una occupazione precaria che rende questo capitale più fragile. Si deve misurare la salute, il sistema della salute, che fin qui non abbiamo misurato. Un sistema pubblico malridotto, quasi inesistente, come ha tragicamente disvelato una pandemia virale tutt’altro che debellata.[…]. È il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo. Dobbiamo misurare ciò che conta e ciò che conta davvero è il benessere. Bisogna dare tutta la priorità possibile al benessere e non al Pil. Se c’è un buon sistema d’indennità di disoccupazione, un buon sistema sanitario, un buon sistema d’istruzione, allora si può guardare con fiducia al futuro».
Il neo liberismo non l’aveva mai attratto. Nei suoi scritti e interventi aveva sempre contrastato, con sapienza e determinazione, l’idea per cui lo Stato doveva lasciar fare al mercato. Lui era di parere diametralmente opposto. «Se si vuole cambiar passo e puntare decisamente su una crescita socialmente equilibrata – ebbe a dire in una delle interviste concesse a questo giornale – c’è bisogno di uno Stato “invasivo” in economia, nei settori strategici, come le infrastrutture, l’innovazione, una seria green economy, e nei “beni comuni”, a cominciare dalla sanità e dall’istruzione. E poi c’è il secondo tabù da infrangere: quello del pareggio di bilancio. Che andrebbe cancellato dalla Costituzione europea. Ma forse è chiedere troppo a chi ha paura di investire sul futuro». Lui quel futuro l’aveva continuato a frequentare. Con le partecipate lezioni universitarie, negli incontri con i giovani studenti ricercatori, in Francia e in quell’Italia che ha sempre avuto nel cuore.
“L’iper austerità – batteva sempre su questo tasto – ha provocato devastazioni sociali alle quali non sarà facile porre rimedio. Di certo, non basteranno semplici ritocchi o misure emergenziali. Impariamo dalla storia: l’Europa ha bisogno di un suo “New Deal” che, sul modello rooseveltiano, faccia leva sull’intervento dello Stato in settori strategici dell’economia. Altro che “invasione di campo”. Oggi la sfida è ricostruire, su basi e idee nuove, un “campo” diventato impraticabile». E ancora: «Oggi più che mai abbiamo bisogno di costruire nuovi diritti sociali, non di decostruire quelli già esistenti. Abbiamo bisogno di costruire dei diritti sociali che garantiscano un futuro di uguaglianza di genere, per gli uomini e le donne, che consentano effettivamente di fare aumentare la speranza di vita delle popolazioni, che permettano agli Stati di rivolgere maggiore attenzione all’istruzione dei loro giovani. Non è quello che sta succedendo, oggi, poiché si stanno invece riducendo i bilanci destinati all’istruzione».
Mentre aumentano le spese militari. La guerra in Ucraina, è l’allarme che aveva lanciato, avrà effetti sull’inflazione aumentando le disuguaglianze e probabilmente porterà ad una profonda recessione. «E più la crisi continuerà peggio sarà». La guerra ha svelato e drammatizzato i nodi irrisolti dell’Europa. Nel campo energetico, in primis. «L’Unione – dice Fitoussi – avrebbe dovuto investire sulle energie alternative per non dipendere dalla Russia.» Dice Fitoussi. Al presente. Perché le sue lezioni resteranno in vita. Ci mancherai, caro Prof.
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