È entrata nella storia per essere la prima donna ad entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. Sue le battaglie per la realizzazione dell’attuale diritto penitenziario e per i diritti delle donne. Lidia Poet ha cambiato davvero il volto della legge e dal 15 febbraio una serie Netflix, “La legge di Lidia Poet”, la celebrerà in sei puntate con Matilda De Angelis che interpreta la celebre avvocata. Ma chi era questa straordinaria donna italiana?

Nata a Perrero, provincia di Torino, il 26 agosto 1855, in un’agiata famiglia valdese, volle sempre studiare e approfondire il più possibile la sua conoscenza. Nel 1871, conseguì la patente di Maestra Superiore Normale, tre anni dopo, quella di Maestra di inglese, tedesco e francese. Tornata a Pinerolo, ormai orfana, chiese ed ottenne di poter proseguire gli studi. Nel 1877 conseguì la licenza liceale, presso il liceo Giovanni Battista Beccaria di Mondovì. L’anno successivo si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università di Torino, dopo aver abbandonato la facoltà di Medicina, diretta da Cesare Lombroso.

Si laureò in giurisprudenza il 17 giugno 1881 dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Svolto il praticantato, superò brillantemente l’esame di abilitazione alla professione forense e chiese l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. La richiesta fu assai dibattuta e portò anche alle dimissioni di importanti membri dall’ordine perché contrari all’iscrizione di una donna. Alla fine Lidia Poet ebbe la meglio e fu la prima donna ammessa all’esercizio dell’avvocatura.

Ma la sua vittoria durò poco: il procuratore generale del Regno mise in dubbio la legittimità dell’iscrizione e impugnò la decisione ricorrendo alla Corte d’Appello di Torino. L’11 novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore e ordinò la cancellazione dall’albo. Lei non si arrese e ricorse in Cassazione che però confermò la decisione della Corte d’Appello sostenendo che “La donna non può esercitare l’avvocatura”. Tra le motivazioni anche quelle di carattere lessicale tipo che la legge unitaria sull’avvocatura 8 giugno 1874, n. 1938 era da intendersi solo per il genere maschile utilizzando il termine avvocato e mai quello di avvocata o di avvocatessa.

La faccenda accese un intenso dibattito non solo in Italia, ma ebbe un lungo seguito con 25 quotidiani italiani sostenitori dei ruoli pubblici tenuti da donne e solo tre contrari. Nonostante l’ esclusione, Lidia Poet, continuò a operare collaborando con il fratello avvocato Giovanni Enrico e divenne attiva soprattutto nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne, sostenendo anche la causa del suffragio femminile. Prese parte attivamente ai Congressi Penitenziari Internazionali dove ricoprì ruoli di rilievo per ben trent’anni, come membro del Segretariato occupandosi dei diritti dei detenuti e dei minori, promuovendo l’istituzione dei tribunali dei minori e affrontando il tema della riabilitazione dei detenuti attraverso l’educazione e il lavoro.

Fu molto attiva anche nella lotta per i diritti delle donne. Pur non approvando i metodi delle suffragette inglesi, si adoperò per l’emancipazione femminile aderendo al Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI) fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1903 e venne incaricata di dirigere i lavori della sezione giuridica nei primi congressi femminili italiani del 1908 e 1914 dove si dibattevano argomenti ancor oggi attualissimi.

Tra le sue battaglie quelle per “l’ammissione delle donne alle funzioni di tutori, la vigilanza del magistrato e il patrocinio scolastico per la protezione fisica e morale dei minori, il divieto di presenza dei minori nelle udienze penali di tribuni e corti di giustizia, la privazione della patria potestà per i genitori che si rendono indegni o che sono riconosciuti incapaci; assistenza immediata ai minori i cui genitori sono in carcere, in ospedale o abbandonati; il divieto di ammettere minori a spettacoli cinematografici offensivi della morale; il divieto di servire negli esercizi bevande alcoliche ai minori; la regolamentazione del lavoro dei minori aumentando i limiti di età e riducendo l’orario di lavoro che non può superare le otto ore giornaliere per i ragazzi al di sotto dei sedici anni e per le ragazze al di sotto dei ventuno anni; l’aumento del limite di età per i delitti contro la morale delle vittime a quattordici anni invece di dodici, e a diciotto anni invece di sedici, e la pena aumentata al massimo per le scritte e le immagini oscene esposte al pubblico”. Proposte che furono da apripista per leggi emanate nei decenni successivi.

Al termine del conflitto mondiale la Legge n. 1179 del 17 luglio 1919, nota come legge Sacchi, abolì l’autorizzazione maritale e autorizzò le donne a entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari. All’art. 7 la legge apriva finalmente alle donne le porte del foro: “Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gl’impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche che attengono alla difesa dello Stato”.

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Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.