In questi giorni Luciano Bianciardi avrebbe compiuto cento anni. Invece riuscì a viverne meno della metà. Il 14 novembre 1971, in quella Milano che odiava e in cui pure era tornato dopo una parentesi a Rapallo, muore, dopo essere stato ricoverato d’urgenza venti giorni prima stordito dai farmaci e affetto da una grave forma di cirrosi epatica causata dall’alcol.

Nel suo libro più famoso, l’unico anzi che la maggior parte delle persone che lo ricordano sono in grado di citare, aveva scritto: «No, io voglio un funerale all’antica, io l’ho scritto nel testamento, un funerale laico, ma d’una certa solennità. Laico, ma tradizionale… Deve essere un bel funerale… Poi si scordino pure di me, ma il funerale lo esigo bello, solenne e, come ho detto sopra, laico. Perché troppi amici ho visto morire malamente, e peggio ancora essere accompagnati al camposanto» (La vita agra, 1962). Se Luciano, protagonista e voce narrante del romanzo, non è solo un omonimo ma l’autore stesso, che tristezza. Perché nulla ha di solenne, quel funerale. Ci sono pochissime persone ed è tutto desolante, affrettato. Sarebbe stata l’ennesima delusione, per Bianciardi. Dopo le tante subite in vita.

Tutto inizia con un altro funerale, secondo alcuni. In una miniera della Montecatini esplode un pozzo invaso dal grisù e muoiono quarantatré minatori. È il 4 maggio 1954, Bianciardi partecipa al funerale insieme alla sua compagna Maria Jatosti, donna coltissima, scrittrice, drammaturga, all’epoca comunista ortodossa. La strage lo colpisce così profondamente che due anni dopo, insieme a Carlo Cassola, ci scrive sopra un libro inchiesta, I minatori della Maremma, ma non è affatto da lì che nasce la sua ribellione e la sua voglia di rivoluzione. Ribelle lo è da sempre. Scontento, disadattato, sbeffeggiatore di ossequiosi burocrati e di stolti obbedienti, di intellettuali boriosi e di arricchiti arroganti.

Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale ed essersi iscritto al Partito d’Azione (forse la sua prima grande delusione: dopo il suo scioglimento, continuò ad essere un attivista politico ma gli passò qualunque voglia di militare in un partito), e dopo aver fatto l’insegnante e il bibliotecario, aveva collaborato a vari giornali fino ad essere notato da “quelli che contano”. Maria Jatosti racconterà della proposta di incontro arrivata da Giancarlo Pajetta, a cui il giornalista è stato segnalato da Antonello Trombadori. Bianciardi vorrebbe rispondere di no, Maria lo convince ad andare e lo aspetta nell’androne. Il colloquio va malissimo. Maria si vede davanti un uomo cupo, arrabbiato, depresso. Niente di quanto ha ascoltato l’ha convinto, e ora sa per certo che da quella parte lì non arriverà nessuna idea o iniziativa capace di cambiare il mondo.

Intanto lavora nella casa editrice Feltrinelli. Questa decisione sì, è scaturita davvero dalla tragedia di Ribolla. Il bisogno di respirare un’altra aria, di uscire dalla provincia. Di osservare, analizzare e sporcarsi le mani in una situazione come quella della grande città industriale d’Italia. Va a Milano a fare il funzionario editoriale, lasciando la moglie e i due figli, ma presto se ne disgusta. Questo lavoro “intellettuale” gli risulta, per le sue stesse modalità, sclerotizzante, alienante, ossessivo e mortificante al pari di tutto il lavoro moderno con regole precise eteroimposte, lavoro che ormai – e lo capisce benissimo, lo profetizza ancora meglio di Pasolini – non ha altra utilità che rendere più solida l’oppressione e costringere in un circolo infernale di produzione-consumo che allontana dai veri bisogni e distrugge i rapporti umani.

Giangiacomo Feltrinelli gli fa quasi pena, gli affibbia i nomignoli di “tanghero”, lo chiama “Zampanò”,timber Jack” o, più spesso, “il Giaguaro”. Viene licenziato per scarso rendimento ma continua a collaborare come traduttore (oltre centodieci libri), senza scomporsi quando, col successo de La vita agra, viene invitato in tutti i salotti, incensato, coccolato. Lo chiama Montanelli al Corriere della Sera, lui rifiuta perché sente che si snaturerebbe. Si trova a disagio ovunque, è la sua dannazione e il suo marchio di fabbrica. Non ha molto a che fare nemmeno con gli operai, figuriamoci con nobili, miliardari e happy few. Però, quando il trio Lizzani-Vincenzoni-Amidei trasformerà il suo libro in sceneggiatura (per iniziativa di Ugo Tognazzi, che nel personaggio di Luciano si ritrova pienamente e fa di tutto affinché il film si realizzi), eccolo lì a consigliare, aiutare.

Una presenza discreta e curiosa sul set, uno sceneggiatore discretissimo che guarda ai più esperti con rispetto e non vuole che il suo ruolo sia ufficializzato, tanto è umile nei loro confronti. Il libro non viene tradito. Superato l’impedimento di un Luciano maremmano che diventa lombardo (Bianciardi accetta il cambiamento con insospettata tranquillità, ed è felice anche della scelta di Giovanna Ralli come interprete femminile), Lizzani procede con sicurezza fino a decretare, a riprese concluse, che quel film è “un matrimonio riuscito tra cinema e letteratura”. Il film piace anche a Bianciardi. Un motivo di soddisfazione, quasi unico. Tutt’altro che positiva, invece, l’esperienza alla Feltrinelli. Impossibile, per lui, trasformarsi in uno che conta l’opera letteraria a battute, a cartelle.

Per lui che considera la scrittura un mezzo potente per incidere sulla realtà, per cui il linguaggio deve sforzarsi (e quanto è difficile) di inventare una realtà nuova e restituire allo stesso tempo l’autenticità del quotidiano. La scrittura è un lavoro degno e con un valore anche collettivo («Sento di non dover lavorare solo per me», Diari universitari, 1939-1942), purché praticata dall’homo faber, umano, creatore. Se l’Italia sta andando verso un aberrante consumismo, l’impegno deve essere quello di remare in direzione contraria. E qui è il dramma di Bianciardi, ciò che lo differenzia da Pasolini. Mentre Pasolini ha alle spalle la solidità di due tradizioni monolitiche, quella cattolica e quella marxista, che poi può criticare, denunciare perché male interpretate e ancora peggio praticate, e tentare magari di far conoscere e propugnare nel loro senso originario e puro, Bianciardi, anarchico e agnostico, non si preoccupa di tradizioni e ideologie tradite, ma davanti all’orrore presente e futuro, che gli è chiaro in tutta la sua crudezza, è solo. Ed emarginato.

Non è un caso che scriva e ragioni con tanta passione su Garibaldi, incontrato attraverso il libro che suo padre gli ha messo in mano a otto anni, I Mille, scritto dall’ex garibaldino toscano Giuseppe Bandi. Nel 1955 lo farà ripubblicare con note sue (firmate da lui, ma scritte in realtà da Maria Jatosti). Garibaldi e il Risorgimento tradito. Garibaldi e la fiducia che la povera gente riponeva in lui. Garibaldi, soprattutto, figura aliena al sistema, che nel 1861 si presenta in Parlamento col suo poncho per tenere quel memorabile discorso che per poco non fa collassare Cavour. Non lo vogliono, Garibaldi. Lo prendono in giro. Sapremo in seguito, dai documenti, dei suoi progetti per Roma, per evitare l’esondazione del Tevere, per risanare i terreni intorno. Progetti ideati con amore infinito insieme a quel combattente idealista che rispondeva al nome di Quirico Filopanti, a Luigi Amidei, ad Alfredo Beccarini.

Gli promisero che sarebbero stati realizzati, quei progetti, ma probabilmente non li guardarono neanche. Garibaldi era solo una figura iconica, buona per strappare urla di giubilo alle masse, ma il cui giudizio, le cui idee non andavano tenute in alcun conto. È di questo Garibaldi romantico e rifiutato che Bianciardi di innamora. Un Garibaldi che fa tenerezza quanto lui, Bianciardi: La battaglia soda (romanzo), Daghela avanti un passo!, Garibaldi (saggio postumo) sono assolutamente da leggere, come da leggere è Aprire il fuoco, quinto e ultimo romanzo, ricreazione delle Cinque giornate di Milano ambientate questa volta nel 1969.

La casa editrice Stampa Alternativa ripubblicherà questo ultimo romanzo con il titolo che l’autore avrebbe voluto dargli ma che fu rifiutato dalla Rizzoli: Le cinque giornate: bisognerebbe anche occupare le banche. “Anche”. Non come prima cosa. E neppure risolutiva. Perché da un pezzo l’anarchico Bianciardi era pervenuto alla più difficile, importante, profonda consapevolezza di ciò che sarebbe necessario fare, per smantellare questo sistema e costruirne uno finalmente a misura umana: «La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in “interiore homine”. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha».