A partire da Zambrano, che inserisco in una famiglia ideale del ‘900 – con Simone Weil, Hannah Arendt, Etty Hillesum, Iris Murdoch e poi Elsa Morante e Anna Maria Ortese (e si tratta di autrici che non hanno quasi mai tematizzato la condizione femminile in quanto tale) – si capisce davvero la centralità del pensiero femminile per comprendere il presente. Aggiungo che a volte si tratta di autrici che possono respingere qualche lettore, per certa aura misticheggiante, per una lingua filosofica contigua alla poesia, perché a volte “mostrano” più che dimostrare. Ma questo pensiero femminile è oggi imprescindibile perché, pur non rinunciando ad una radicalità di visione, (e di consapevolezza della crisi, della fine di ogni significato nella modernità) non cedono al nichilismo. In loro la conoscenza è attenzione alla realtà, alle cose come sono, e nel contempo amore per il mondo.

Zambrano rifiuta la separazione platonica dei due mondi, determinata dal terrore del divenire: per lei essere e apparire coincidono (come peraltro ritiene il romanzo moderno), e mai pensa che ciò che vediamo sia privo di interesse, o meno reale delle sue cause. E sempre nei suoi scritti è presente il rifiuto di ogni forzatura, e perfino di quella “violenza” compresa nella volontà stessa: la sua luce scura accoglie «dove non si patisce alcuna violenza, perché lì, a quella luce, si è giunti senza forzare alcuna porta».