Almeno due sono i fattori che congiurano contro una diffusione del pensiero di Maria Zambrano (1904-1991) in Italia. È una donna, dunque per definizione una “dilettante” in filosofia. E poi è spagnola e noi magari smaniamo per la Mitteleuropa ma i nostri cugini spagnoli non ce li siamo mai filati troppo (forse pensiamo, sbagliando, che ci sono troppo simili). Eppure se vi capita di trovare la sua autobiografia, Delirio e destino (Cortina 2000), potreste avere una folgorazione. Al centro troviamo una idea “eversiva” del conoscere, non separato dal sentire, ed è la conoscenza poetica. Inoltre, la condizione di esiliato è accostata a quella del mistico: spossessamento radicale (e ancora alla condizione umana stessa, che coincide con un abbandono, con una misteriosa caduta rispetto a un paradiso perduto). Zambrano, che a 24 anni si ammalò di tisi, passando un intero anno in isolamento, ha trascorso buona parte della vita in esilio, tra l’Avana, Parigi e Roma. Sulla stessa bancarella ho trovato un altro prezioso volume, La passività (Bruno Mondadori 2006), scritti su Zambrano a cura di Maria Luisa Bottarelli.
Ne viene fuori un elogio e una restituzione di dignità filosofica alla passività, intesa soprattutto come patire. Si tratta di un ribaltamento di paradigma: la passività non è inerzia e quietismo, ma apertura. Nella relazione con l’altro per farlo esistere mi devo necessariamente un po’ ritirare, retrocedere, altrimenti non troverebbe neanche lo spazio. Il che rimanda teologicamente alla kenosis, allo “svuotamento” o abbassamento da parte di Dio, dunque da una parte a una lettera di san Paolo (ai Filippesi, su Cristo che si è spogliato della sua divinità) e dall’altra alla tradizione della Qabbala mistica di Isaaca Luria (il mondo nasce da una contrazione di Dio, da una rinuncia all’onnipotenza per creare qualcosa di diverso da sé!). In Zambrano questo de-crearsi non contiene alcuna suggestione gnostica (tipo negazione dell’essere al mondo, dell’essere nati, come a volte traspare nella componente catara di Simone Weil), ma è solo ridimensionare l’onnipotenza dell’io, le sue pretese di dominio. All’inizio del Paradiso di Dante, Dio è visto non come potenza ma come luce, che risplende ovunque: dunque, in un certo senso, si limita a far apparire il mondo (che, certo, ha creato lui, però poi chiama l’uomo per nominare tutte le cose: appunto rinuncia a un potere).
Straordinario l’incontro di Zambrano con la filosofia, intrecciato con la sua metafisica della luce. All’università ascoltava il professore quando un raggio di luce, attraverso una tendina nera, la colpisce all’improvviso, producendo una “rivelazione folgorante”: scopre allora una “penombra toccata d’allegria” (l’ombra non sparisce del tutto), e cioè una luce che proviene dal basso, non dall’alto, senza imporsi, più simile a quella dell’aurora che a quella del sole allo zenit (da allora lei si immerse in Spinoza). Vede la chiarezza occultata nella oscurità, per parafrasare il suo maestro Ortega y Gasset, e capisce che le cose diventano qualcosa solo quando le si patisce. Di qui anche una conoscenza che si traduce in pietà per l’altro, in fraternità con quanti patiscono e hanno bisogno, e senza mai idealizzare l’altro, che invece è spesso portatore di conflitto (non un sentimento moralistico o un dovere precettistico ma appunto il riconoscimento di un destino comune).
A partire da Zambrano, che inserisco in una famiglia ideale del ‘900 – con Simone Weil, Hannah Arendt, Etty Hillesum, Iris Murdoch e poi Elsa Morante e Anna Maria Ortese (e si tratta di autrici che non hanno quasi mai tematizzato la condizione femminile in quanto tale) – si capisce davvero la centralità del pensiero femminile per comprendere il presente. Aggiungo che a volte si tratta di autrici che possono respingere qualche lettore, per certa aura misticheggiante, per una lingua filosofica contigua alla poesia, perché a volte “mostrano” più che dimostrare. Ma questo pensiero femminile è oggi imprescindibile perché, pur non rinunciando ad una radicalità di visione, (e di consapevolezza della crisi, della fine di ogni significato nella modernità) non cedono al nichilismo. In loro la conoscenza è attenzione alla realtà, alle cose come sono, e nel contempo amore per il mondo.
Zambrano rifiuta la separazione platonica dei due mondi, determinata dal terrore del divenire: per lei essere e apparire coincidono (come peraltro ritiene il romanzo moderno), e mai pensa che ciò che vediamo sia privo di interesse, o meno reale delle sue cause. E sempre nei suoi scritti è presente il rifiuto di ogni forzatura, e perfino di quella “violenza” compresa nella volontà stessa: la sua luce scura accoglie «dove non si patisce alcuna violenza, perché lì, a quella luce, si è giunti senza forzare alcuna porta».