Quando il 27 aprile 1994 Rolihlahla Mandela, ribattezzato Nelson dal suo insegnante alle elementari, diventò il primo presidente nero del Sudafrica grazie alla vittoria del suo African National Congress nelle prime elezioni dopo la fine dell’apartheid, il suo mito e la sua leggenda erano già del tutto definiti e universalmente diffusi. Probabilmente è difficile, per chi oggi ha meno di 40 anni, capire cosa Mandela abbia significato per un paio di generazioni e in particolare per i giovani degli anni ‘80 del secolo scorso, gli ultimi traversati in occidente da veri movimenti di massa, pur se diversi da quelli rivoluzionari del decennio precedente.
Quei nuovi movimenti erano cresciuti nel segno del pacifismo, nel corso di quella che è stata definita la “seconda guerra fredda”, dell’antinuclearismo, dopo la tragedia Chernobyl, e di Nelson Mandela. Più che al romantico e utopistico Che Guevara, Nelson/Rolihlahala (che nella lingua Xhosa significa “creatore di problemi”, Troublemaker) potrebbe essere accostato ai grandi leader neri americani degli anni ‘50 e ‘60, Malcolm X e Martin Luther King. Ma ancora più di loro era simbolo insieme della resistenza eroica contro qualsiasi ingiustizia e di una rivoluzione possibile. Era il “prigioniero di Robben Island”, invisibile ma onnipresente, con una voce fortissima e decisa fuori dalla galera, quella della seconda moglie Winnie, una delle figure più amate di quel decennio.
Condannato all’ergastolo nel 1964, aveva passato 19 anni nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, trasferito poi nel 1982 nella prigione di Pollsmoor, a Città del Capo. Incalzato da un movimento che non conosceva confini, con Mandela esaltato nelle manifestazioni di tutto il mondo, cantato dalle rockstar, osannato nei concerti di massa come nei dibattiti istituzionali, il governo del National Party iniziò a trattare la resa. Nel 1988 propose un accordo a Madiba, come veniva chiamato Mandela dall’appellativo della sua famiglia, un ramo di quella reale dell’etnia Thembu: la sua scarcerazione, insieme a tutti gli altri prigionieri politici, e la legalizzazione dell’Anc in cambio della rinuncia alla lotta armata e a qualsiasi rapporto con il partito comunista. Tra le accuse che lo aveva portato a Robben Island c’era infatti anche quella di essere comunista. Mandela negò sempre e solo nel 2011 è stato accertato che era anche stato non solo iscritto al partito comunista ma anche membro del Comitato centrale. Mandela rifiutò l’accordo. Fu spostato comunque in un carcere di minima sicurezza, il Victor Vester nella città di Pear. L’apartheid, in vigore dal 1948, era sul punto di crollare. Il nuovo segretario del National Party de Klerk, presidente dal 1989, lo avrebbe abolito nel 1991. Mandela era stato liberato senza condizioni un anno prima, l’11 febbraio 1990.
Per i leader che devono la loro immensa popolarità alla persecuzione e alla detenzione, la liberazione è sempre un rischio. Il mito si deve confrontare con la realtà. Le aspettative altissime destate dall’aura leggendaria vengono messe alla prova dei fatti e delle capacità reali. La campagna per la liberazione di Huey P. Newton, leader del Black Panther Party, aveva reso le Pantere fortissime nei ghetti d’America, il principale movimento rivoluzionario americano forse dell’intero XX secolo. La sua liberazione di Newton segno l’inizio della fine. Capitò, almeno in parte, anche a Winnie. Era stata la voce del recluso, la profetessa che aveva mantenuto sempre accesa e alta la fiamma, la “madre della Nazione”. La prima fotografia del leader dell’Anc libero dopo 27 anni lo vede mano per mano con lei.
Ma dopo la liberazione le voci degli abusi e delle violenze compiute nel ghetto di Soweto dalla sua guardia del corpo, il “Mandela United Football Club”, che avevano già raggiunto il leader in carcere, diventarono di dominio pubblico, diventarono capi d’accusa ufficiali. Mandela decise di appoggiarla comunque, nel corso del primo processo, ma nel 1992 divorziò. Il primo presidente nero del Sudafrica invece, dimostrò la sua immensa statura di dirigente politico proprio nei cinque anni del suo mandato, dal 1994 al 1999. Scelse la via della riconciliazione, non quella della rappresaglia. Chiamò alla vicepresidenza, nonostante se ne fidasse sempre meno, de Klerk, in coppia col quale aveva ricevuto il Nobel per la pace nel 1993. Fece il possibile per rimarginare ferite che erano in realtà profondissime, forse incurabili. Cercò di rendere il Sudafrica un paese “arcobaleno” non per modo di dire e dunque anche di rassicurare la minoranza bianca. Anche a costo di scontentare una parte della sua gente e del suo stesso partito inclusa Winnie, sempre più critica nei confronti del suo ex marito.
In parte Mandela era certamente mosso da un calcolo politico, basato sull’esperienza della decolonizzazione negli altri Paesi africani. Sapeva che la fuga della borghesia bianca, sia inglese che afrikaneer, avrebbe avuto effetti esiziali sull’economia del nuovo Sudafrica. Ma non c’era affatto solo il ragionamento freddo dello statista. La sua biografia politica è tutta segnata dal problema dei rapporti interazziali. Nella prima parte della sua militanza, negli anni ‘40, aveva abbracciato la visione drasticamente contraria a ogni alleanza inter-razziale di Victor Lembede, il più influente leader e riformatore dell’Anc, esistente sin dal 1912. Nei primi anni ‘50, però, anche in seguito ai rapporti con in comunisti e poi all’adesione al partito, aveva rovesciato la posizione razzialmente intransigente diventando il principale sostenitore della resistenza multietnica e multirazziale. La politica che adottò come presidente aveva radici profonde e meditate.
Lo strumento sul quale Mandela puntò fu la Truth and Reconciliation Commission, la Commissione per la verità e riconciliazione presieduta da un altro eroe della lotta contro l’apartheid, l’arcivescovo Desmond Tutu. Si divideva in tre diversi comitati. Quello “per le violazioni dei diritti umani” raccoglieva, spesso in seduto pubbliche, testimonianze sia delle vittime che dei persecutori, inclusi quegli esponenti dell’Anc che si erano macchiate di torture e omicidi come la stessa Winnie. L’obiettivo era far emergere tutta la verità sugli anni dell’apartheid, nella convinzione che la rimozione avrebbe reso impossibile sanare le lacerazioni. In cambio delle testimonianze la commissione offriva la possibilità di amnistia, di cui si occupava un altro apposito comitato. Le condizioni per chiedere l’amnistia erano una piena confessione, la manifestazione convincente del pentimento e la dimostrazione che i crimini erano stati commessi per ordini ricevuti dall’alto. Le richieste di amnistia furono 7112. Ne furono accolte 849. Un terzo comitato si occupava invece delle richieste di risarcimento.
La presidenza Mandela ebbe molte luci, non solo la riconciliazione ma lo sforzo eccezionale su welfare e alfabetizzazione, e qualche ombra, soprattutto la sottovalutazione della piaga dell’Aids, ammessa in seguito dallo stesso ormai ex presidente. Anche il tentativo di pacificazione si è dimostrato con gli anni più fragile di quanto non sperasse Madiba. Ma l’importanza di aver indicato la via di una giustizia senza vendetta, e di aver mosso comunque passi fondamentali in quella direzione, va molto oltre i confini del Sudafrica. È un messaggio al mondo e forse la dimostrazione che, per una volta, il mito aveva un suo fondamento. Nelson Mandela, l’uomo che aveva spinto l’Anc sulla via della lotta armata, non era un pacifista. Ma era uomo di guerra quanto uomo di pace. Un leader che cercava la giustizia ma senza aggiungere anelli alla catena dell’odio, come ce ne sono stati e ce ne sono ancora molto pochi.